LE PREDICHE DI SPOLETO/6. Lo sforzo cristiano: sollevatore di pesi
Poter sillabare anche solo qualche postilla in merito a questa sesta opera di misericordia spirituale significa, innanzitutto, perlustrare il significato del perdono biblico, premessa ed esito del poter sopportare pazientemente le persone moleste. Prima, però, di iniziare ad ascoltare ciò che la Sacra Scrittura ci suggerisce a questo proposito, balza agli occhi il fatto di quanto questa cosiddetta opera di misericordia spirituale si riveli in tutta la sua sorprendente attualità. E ciò a causa di quel fenomeno per cui nella società della tecnica (1) in cui ci troviamo completamente, per quanto forse inconsapevolmente, inabissati, può succedere che ogni persona appaia a noi «molesta». A sapere: che la sua presenza risulti a noi inopportuna, fastidiosa, addirittura insopportabile, sembrando, quasi di starci, appunto, addosso come una mole, «molestandoci». Mai come oggi, avvolti nello scenario tardo moderno (2), per la precisione iniziato l’11 Settembre 2001, desideriamo, da una parte, ammirare il volto del fratello e della sorella che sono l’altro per me. Ma mai come oggi, d’altro canto, proprio la presenza dell’altro ci inquieta, ci molesta quasi, anche se l’altro non proferisce nulla, anche se, forse, in treno – per riportare soltanto un esempio – è seduto silenziosamente e garbatamente di fianco o – peggio – di fronte a me, situazione alquanto molesta che raggiunge il suo apice quando ci si dovesse trovare in ascensore non solo con uno sconosciuto, ma anche con una persona con la quale, magari, confliggiamo nell’antifrasi della relazione. Perché, appunto, può succedere che non sia l’altro ad essere un molesto per me, bensì l’ospitate inquietante dentro di me che me lo fa sentire tale (3).
Non è possibile, né conveniente tentare oggi un’adeguata interpretazione della sesta opera di misericordia spirituale, che ci invita e ci sprona, anzi, a sopportare pazientemente le persone moleste senza essere almeno previamente consapevoli di questo scenario esterno e interno a noi che, con questa breve premessa, si è tentato a grandi pennellate di delineare. Con questa utile lente d’ingrandimento possiamo adesso vacare la soglia della Sacra Scrittura al fine di udire in essa la voce perenne della Parola di Dio, che ci invita a perdonare, quale premessa necessaria per sopportare pazientemente le persone moleste.
2. La condizione preliminare della Sacra Scrittura: «settanta volte sette»
Nella Bibbia esiste un campionario di ogni tipo di offesa: affronto (2Sam 10,4), ingiuria (1Sam 25,10-11), insulto (1Sam 20,30), oltraggio (2Sam 16,5-14), disonore (Gn 34,1-5), disprezzo (2Cr 18,23), scherno (1Mac 7,34), torto (Sir 23,23), furto e assassinio (1Re 21), adulterio e assassinio (2Sam 11,1-25). Ma è proprio in questo contesto amaro della vita quotidiana che Israele esperimenta qualcosa di diverso: «Quale Dio è come te, che toglie l’iniquità e perdona il peccato al resto della sua eredità? Egli non serba per sempre la sua ira, ma si compiace di manifestare il suo amore» (Mi 7,18). L’incontro con Dio è per Israele fondamen¬talmente esperienza di perdono: «Il Signore passò davanti a lui, proclamando: “Il Signore, il Signore Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato”...» (Es 34,6-7; cf anche Nm 14,18-20; Ne 9,17).
Il bisogno quotidiano di perdono da parte di Dio e la sua magnanimi¬tà nel concederlo stabiliscono un nuovo rapporto anche con il fratello: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre» (Es 23,4-5). Infatti, «chi si vendica subirà la vendetta del Signore, il quale tiene sempre presenti i suoi peccati. Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i tuoi peccati. Un uomo che resta in collera contro un altro uomo, come può chiedere la guarigione al Signore?» (Sir 28,1-4).
Ma il perdono di Dio non è perdonismo, o innocentismo: egli «castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Es 34,7b; cf Num 14,18). Anzi, sulla base di un concetto radicato di «vendetta privata» Jahwé si attribuisce il titolo di «Go ’el» (Is 41,14; Ger 50,34; Sal 19,15) – il vendicatore del sangue – che è il parente più stretto della vittima, il protettore, a cui compete il diritto di «far morire l’omicida» (Nm 35,19). Go ’el sarà considerato lo stesso Messia, il Cristo redentore.
Resta, dunque, profonda la coscienza che il male fatto ad altri, il peccato, si paga con la morte (cf Gn 3 e Rm 6,23), e che un “ministero della giustizia” divina opera accanto a quello del perdono. Ed ecco perché è essenziale, oltre che ragionevole, distinguere chiaramente il giudizio particolare da quello universale, che avrà luogo alla fine dei tempi e che sarà, comunque, connesso all’operare della persona. I rabbini, infatti, usano esprimere questa convinzione con l’immagine di due diversi troni su cui Dio, di volta in volta, siede. «Non dire», esclama il Siracide, «“la sua compassione è grande; mi perdonerà i molti peccati”; perché presso di lui c’è misericordia e ira, e il suo sdegno si riverserà sui peccatori. Non aspettare a convertirti al Signore e non rimandare di giorno in giorno» (Sir 5,6). Il perdono, infatti, ha una condizione fondamentale: la necessità del ritorno, della conversione: «Forse quelli della casa di Giuda, sentendo tutto il male che mi propongo di fare loro, abbandoneranno la propria condotta perversa e allora io perdonerò le loro iniquità e i loro peccati» (Ger 36,3).
Il Nuovo Testamento raccoglie e ripropone questa eredità condensata nella petizione del Padre nostro: «Rimetti a noi i nostri debiti come [Luca 11,4: anche noi infatti] anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). «Se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6,15b). «Perdonate e sarete perdonati» (Lc 6,37c).
Il verbo che si usa nel Vangelo per rimettere i peccati suona in greco «aphiemì» che letteralmente significa «rilasciare», «mandar via» «dimettere». Specifica¬mente indica la remissione della punizione dovuta a una condotta peccaminosa, la liberazione del peccatore dalla pena che gli spetta. Secondariamente la remissione comporta la completa rimozione della causa dell’offesa. Il perdono, in sostanza, è la lotta più efficace che si possa concepire contro il male. E un dono incondizionato, non meritato che Dio fa in Gesù Cristo. Per questo Paolo spesso usa un altro verbo per indicare il per-dono: «charizomai» che indica, appunto, la capacità di fare un favore incondizionatamente, gratuitamente.
Quante volte uno è tenuto ad offrire il perdono: «Fino a sette volte?». Gesù rispose a Pietro: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18,22), espressione nella quale il sette equivale al segno algebrico dell’infinito, l’otto rovesciato ∞ cioè sempre. Il radicali¬smo del vangelo estende questo perdono all’estremo: fino al malvagio, fino a perdonare tutto. Ama molto colui a cui molto è stato perdonato (cf Lc 17,40-43.47b): il perdono è conseguenza necessaria dell’amore; ma esso anche precede l’amore, ne è il punto di partenza (cf Lc 17,47a).
Il perdono cristiano comporta certo anche un elemento di correzione fraterna: «Se tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo “sono pentito”, tu gli perdonerai». Sono, forse, questi due versetti di Luca il «protocollo esistenziale» di come dover sopportare pazientemente le persone moleste, quando esse, tuttavia ritornano continuamente a noi per chiederci il perdono che, proprio per questo, non dobbiamo negare loro (cf Lc 17,3-4). Ed è facile per un francescano ritornare con la mente e con il cuore alla mirabile «Lettera a un ministro» di San Francesco, cioè a un superiore, ma nell’accezione del tutto francescana di servo («minus-ter») dei Frati, laddove, senza bisogno di dover ulteriormente commentare così si legge: «Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti impediscono di amare il Signore Iddio, e ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati od altri, anche se ti percuotessero, tutto questo devi ritenere come una grazia. […] E ama coloro che ti fanno queste cose. E non aspettarti da loro altro, se non ciò che il Signore ti darà. E in questo amali e non pretendere che siano cristiani migliori. […] E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore e ami me servo suo e tuo, se farai questo, e cioè: che non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attirarlo al Signore; e abbi sempre misericordia di tali fratelli (4)».
Senza ombra di dubbio, questa Lettera a un ministro di San Francesco è profondamente radicata nel tessuto evangelico del Nuovo Testamento, dove i discepoli, soprattutto Pietro e Paolo renderanno del Maestro Gesù Cristo questa testimonianza: «Insultato, non rispondeva con insulti, maltratto, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia. […] Non rendete male per male né ingiuria per ingiuria, ma rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione» (1Pt 2,23; 3,9). L’annuncio del perdono dei peccati è uno dei tratti costitutivi del kerygma apostolico (At 2,38; 3,19; 13,38). E le comunità di Paolo sono invitate costantemente a vivere nel perdono: «Siate [invece] benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonan¬dovi a vicenda come anche Dio ha perdonato a voi in Cristo» (Ef 4,32; cf anche Col 3,13). Senza, comunque, cedere a nessuna tentazione di perdonismo. Paolo nella lettera ai Romani è esplicito: «Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: “Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo”, dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene» (Rm 12,19-21).
3. La forza della sopportazione scaturisce dalla fede e sprigiona l’unità
I peccatori, specialmente se sono persone moleste, bisogna perdo¬narli certo, ma anche sopportarli. Una precisazione sembra necessaria parlando di sopportazione dei molesti. Mentre nella lingua parlata il verbo sopportare ha assunto una colorazione negativa e piuttosto passiva (un “restare sotto” un peso che non si può evitare), nella sua etimologia greca porta con sé un significato attivo e positivo: è uno stare eretto di fronte a qualcuno o qualcosa con fermezza, un portare sopra di sé, tenendo fermo, resistendo con il coraggio della pazienza all’urto. E pazienza è la capacità anche di patire. E l’attitudine cioè di un forte di fronte al nemico, alle avversità, al dolore.
Nella Scrittura, sopportare è innanzitutto proprio di Dio. Egli soppor¬ta le mormorazioni dei figli di Israele, senza lasciarsi vincere da esse: «Fino a quando sopporterò questa comunità malvagia che mormo¬ra contro di me?» (Num 14,27). Egli «ha sopportato con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione. E questo, per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria» (Rm 9,22-23). Anche se questa pazienza sembra trovare, ad un certo punto, la resisten¬za della malvagità umana come sua barriera, come sembra far intuire il profeta Geremia: «Il Signore non ha più potuto sopportare la malvagità delle vostre azioni, né le cose abominevoli che avete commesso» (Ger 44,22). Lo stesso lamento si trova sulla bocca di Gesù: «O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?» (Mc 9,19; Mt 17,17; Lc 9,41). Il Signore non riesce a sopportare soprattutto colui che non crede nella sua misericordia (5)e proprio per questo si indurisce nella via della malvagità, della non conversione.
Il cristiano è chiamato, come imitatore di Dio (Ef 5,1), a portare anch’egli sopra di sé il peso dei fratelli; «Vi esorto […] a sopportarvi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,1-3), «sopportandovi a vicenda e perdonando¬vi gli uni agli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro» (Col 3,13). Sopportazione e perdono sono qui principi della vita comunitaria cristiana. E non solo cristiana.
Molesto è, infatti, qualcuno o qualcosa che provoca sofferenza, fatica, pesantezza; che provoca un lavoro extra. Come afferma dello stolto il libro dei Proverbi: «La pietra è greve, la sabbia è pesante, ma più d’entrambi la collera dello stolto» (Pr 27,3); o come gli amici di Giobbe: «Siete tutti consolatori molesti» (Gb 16,2b). Invece di portare con lui il peso (= sopportare) degli eventi, diventano loro stessi un nuovo peso, una nuova molestia. La misura di questa sopportazione per il cristiano è ancora una volta l’amore: la carità che «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7); perché, come Dio stesso, come Cristo di cui quest’inno di Paolo descrive le fattezze essenziali, «non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto» (1Cor 13,5). Perdonare e sopportare sono principi basilari del vivere ecclesiale. Ma soprattutto sono la rivelazione e l’attualizzazione della perfezione del Padre nella comunità dei fratelli.
La Sacra Scrittura, insomma, che pur sempre è fonte di vita nuova, riconosce come ci possano essere attorno a noi delle persone moleste e come la loro presenza appesantisca – per così dire – il già talvolta instabile equilibrio di una comunità. Eppure la proposta del testo sacro, e soprattutto del Nuovo Testamento, è sconvolgente. A sapere: con il nostro amore dichiaratamente cristiano noi possiamo, appunto, “alleggerire i pesi” di una comunità attuando questa sesta opera di misericordia spirituale. Nella fattispecie attraverso questo processo: lo Spirito di Gesù Cristo, il quale è riuscito a sopportare nel suo corpo perfino la tortura e gli aculei della flagellazione, opera in noi attraverso la sua grazia, permettendoci non solo di sopportare pazientemente le persone moleste, ma anche, quasi, di reintegrarle nella comunità mediante un’azione di rappacificazione. Più nel cuore di un battezzato o di una battezzata pulsano gli stessi battiti del cuore di Gesù, più la comunità cristiana e quella civile vengono edificate nella speranza, curate nelle proprie ferite dal balsamo della carità poiché solo in questo modo viene veicolato il diagramma della profezia neotestamentaria (6).
Lo aveva capito bene Paolo, l’Apostolo delle genti, quando nella «Lettera» alla comunità cristiana di Roma, nel cuore del capitolo XII, aveva rivelato il segreto, certamente più efficace, per sopportare pazientemente le persone moleste, mediante questo invito: «non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene (Rm 12,21). Se tutti e tutte operassimo così nel mondo di domani non ci sarebbe più quell’ospite inquietante, di cui si parlava all’inizio, la cui forza invasiva può soltanto essere sedata con il primo stigma caratterizzante il bene che per ogni essere umano è il sorriso e, per il cristiano, l’insuperata possibilità di intravedere in ogni fratello l’iride meravigliosa degli occhi di Gesù e, di conseguenza, la luce stessa di Dio.
NOTE
(1) Cf. U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, (Campi del Sapere), Feltrinelli, Milano 2000, pp. 255-258; ID., Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente, (ETS 42) Il Saggiatore, Milano 1996, pp. 192-200.(2) Cf G. PASQUALE, Una messa a punto dell’escatologia. A cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, in C. DOTOLO – G. GIORGIO, ed., Credo la risurrezione della carne, la vita eterna, (Atti SIRT 10), Edizioni Dehoniane, Bologna 2013, pp. 271-288.
(3) Cf La scena finale del film di GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO, Sopportare pazientemente le persone moleste, presentato da ALESSANDRO BORELLI, Roma 2011. I due fratelli De Serio, che grazie a questo film hanno vinto il «Premio Navicella» sull’esempio caravaggesco hanno portato sullo schermo una dolente parabola umana, umanissima, aperta alla speranza e, per questo, di fine attualità.
(4) FRANCESCO D’ASSISI, Lettera a un ministro [nn. 234-235], in E. CAROLI, ed., Fonti Francescane. Terza edizione rivista e aggiornata, Editrici Francescane, Padova 20113, pp. 153-154.
(5) Cf W. KASPER, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita cristiana, (Giornale di Teologia 361), Queriniana, Brescia 2013, pp. 187-198.
(6) Cf R. FISICHELLA, Gesù di Nazaret profezia del Padre, (Saggistica Paoline 1), Paoline Editoriale Libri, Milano 2000, pp. 96-123.