Idee. Nati per unire, ora i simboli dividono
Il simbolo fa pensare, sostiene Paul Ricoeur, e unisce/collega, ovvero crea comunione (dal verbo greco symballo con le radici syn “insieme” e bàllo “gettare”, nel significato di “mettere insieme” due parti originariamente unite e poi spezzate o separate). Accade, tuttavia che tale nesso venga percepito e vissuto soprattutto come espressione identitaria e, talvolta, divisiva, finendo con l’alimentare atteggiamenti di violenza nei confronti dell’altro. E ciò accade anche al cospetto di tre simboli che abitano il nostro attuale contesto. In primo luogo, il segno dell’arcobaleno, che proviene da una gloriosa tradizione, quella che ci riconduce al racconto (mitico) del diluvio (segno dell’alleanza Gen 9, 12-13). Colori diversi ma in un unico arco, che non è l’arco della guerra e della violenza, ma quello della pace e della pluralità feconda. Nella pandemia della prima ora, quando ci dicevamo che “andrà tutto bene!”, venivano esposte dai balconi e dalle finestre bandiere con l’arcobaleno. Segno di speranza e della possibilità di includere la policromia delle appartenenze, di religioni, di culture, di etnie, di sessi in un’armonia sintetica, ma non omologante. Il fascino del segno cosmico incrocia così la nostra storia e ci invita alla concordia. Ma cosa ha impedito l’esposizione del segno nel contesto di una manifestazione sportiva quale una partita di calcio (quella fra Germania e Ungheria del 23 giugno scorso a Monaco), determinata da una decisione della Uefa (interessante la motivazione), mentre il Cio ha concesso la possibilità di utilizzare tale simbolo, come fascia, alle Olimpiadi di Tokio? Qualcosa è accaduto, ovvero la frattura fra il segno cosmico e la storia, fra la natura e la cultura, fra la biologia e la soggettività. Tutto è demandato alla percezione che il singolo vive di fronte a tale esposizione. Il fatto che l’arcobaleno sia segno dell’alleanza noachica, ovvero della comunione di Dio con tutti i popo- li, significa che nessuno se ne può appropriare in maniera ideologica. Se, in una famosa canzone, ci si chiede “di che colore è la pelle di Dio?” e si risponde che Dio ci vede uguali davanti a sé, allora l’arcobaleno significa un Dio a colori (come quello rappresentato nel Liber figurarum attribuito a Gioacchino da Fiore e nell’ultimo canto della Commedia di Dante Alighieri), non in bianco e nero, ossia un Dio che sfugge alla prigionia della logica binaria, ma si apre al paradosso e alla complessità conviviale. Rimuovere ciò che ci impedisce di contemplare questa alleanza Dio/umanità nella icona dell’arcobaleno è la premessa per poter esprimere una comunione nelle differenze, al di là delle appartenenze. Il degrado della politica, anche internazionale, ci pone di fronte a un dilemma: esporre o no l’arcobaleno, frutto proprio di quella logica che non conosce sfumature e non è attenta alla complessità? A prescindere dalle politiche più o meno identitarie e sovraniste, lasciamo che ciascuno possa continuare a contemplare questa meraviglia della natura, senza lasciarci irretire da polemiche sterili e assurde ed evitando di farne una bandiera divisiva. La pluralità è una ricchezza nel senso che impedisce l’omogeneizzazione delle singolarità e questo vale a tutti i livelli. Non si tratta di “relativismo”, ma di “coincidenza degli opposti” (come diceva il cardinale Nicolò Cusano), ovvero di quella logica paradossale della fede che ci invita alla sequela di un Dio Uno e Trino, attraverso la mediazione di un Gesù insieme Dio e Uomo e di una Chiesa insieme casta e meretrice. Come credenti nel Vangelo guardiamo alla rivelazione cosmica ogni volta che nel cielo delle nostre città e dei nostri borghi appare un arcobaleno e di fronte a tale “miracolo” cosmico risulta irrilevante la querelle circa la delusione derivata dal fatto che la bandiera-arcobaleno non sia stata esposta anche sui nostri stadi: non ne siamo affatto indignati. Il secondo simbolo che sta provocando il nostro pensiero è la svastica ( swastika). Anche in questo caso c’entra lo sport. Ed è stato interessante il dibattito sviluppatosi intorno alla presenza di tale simbolo-logo nelle guide turistiche previste per quanti avrebbero dovuto recarsi in Giappone per assistere alle olimpiadi, giocate (non celebrate) a porte chiuse, ma ciò non ci impedisce di cogliere il senso della discussione. Un analogo (rispetto a quello dell’arcobaleno) e più profondo sradicamento (metamorfosi) dal suo contesto originario lo ha subito proprio questo antico simbolo religioso. Il suo significato, se da un lato (antropologico) dice “benessere” psicosomatico, e in tal senso diventa una sorta di amuleto, analogamente al quadrato del Sator ( Sator Arepo Tenet Opera Rotas) in epoca tardoimperiale, dal punto di vista propriamente spirituale sta ad indicare la polarizzazione dell’universo e il suo ruotare intorno a una croce orientale (in quanto tale ritroviamo tale simbolo anche in ambito cristiano fino al tardo medioevo). Stat crux dum volvitur orbis! potremmo esclamare col famoso motto certosino. Ma qui si tratta di una croce disabitata, cui manca il Crocifisso, ossia la dimensione storica e profondamente umana di colui che vi è inchiodato. Oltre questi significati, René Guénon ( Il simbolismo della croce) evoca la “benedizione” e contestualmente richiama la “croce del verbo”, per cui la parte interna rappresenterebbe il Cristo e i quattro gamma gli evangelisti. L’appropriazione in prospettiva staurologico-cristiana della swastika nulla toglie alle sue origini soprattutto induiste ed è interessante il fatto che nel 2008 autorità indu ed ebraiche (Gran Rabbinato d’Israele e Hindu Dharma Achayra Sabha) abbiano preso le distanze dall’adozione del simbolo da parte del nazismo in una dichiarazione comune, che al punto 7 recita: «La svastika è un antico e importante simbolo religioso dell’Induismo, che nulla ha a che fare con il nazismo e che l’utilizzo passato di tale simbolo da parte di questo regime è stato assolutamente improprio ». L’aver richiamato tale distanza, tuttavia non credo possa risultare convincente per quanti ormai spontaneamente sono portati ad associare la swastika alla tragedia della shoah e del nazionalsocialismo. Finalmente il simbolo che maggiormente ci sta a cuore: il Crocifisso. A breve la Corte di cassazione (sezioni unite) dovrebbe pronunciarsi sulla possibilità di esporre la croce cristiana nelle aule scolastiche. Attendiamo fiduciosi l’esito di tale pronunciamento, che auspichiamo positivo. Qualora tuttavia la Corte decidesse in senso opposto rispetto a una tradizione radicata nel Paese e contestata di tanto in tanto da minoranze rumorose, saremo chiamati a leggere la sentenza e soprattutto le sue motivazioni alla luce di quanto enunciato da papa Francesco in un famoso discorso alla Curia romana (21 dicembre 2019): «Non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Qualora, al contrario, venisse confermata la consuetudine di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche (ma ciò vale per tutti i luoghi pubblici) non ne faremo un simbolo divisivo, né lo brandiremo per negare con violenza i diritti di altre appartenenze religiose e culturali e, nel rispetto della sana laicità, che le istituzioni civili richiedono mostreremo la valenza universale di quel “venerdì santo storico”, che diviene “venerdì santo speculativo” (G. F. G. Hegel) in quanto sta a rappresentare il dolore infinito (innocente) e l’ingiustizia che attraversano i secoli e le regioni di questo mondo, stimolando il pensiero nella ricerca di senso e di redenzione.