Archeologia. Macché "sportivo": il Tuffatore di Paestum è nell'anima
Il tuffatore di Paestum
Il fondo è bianco, evoca l’infinito, due alberelli definiscono la scena: un giovane si tuffa da una costruzione di blocchi squadrati, verso uno specchio d’acqua. Vidi il dipinto, Il tuffatore di Paestum, più di trent’anni fa, tornavo dal mare e attorno al sito pascolavano le bufale da cui nasce la migliore mozzarella, da sempre. Ma lo avevo conosciuto a vent’anni, come si incontra un mito, grazie a un libro fondamentale per la conoscenza della nostra anima: in Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti la grande antropologa Anita Seppilli (autrice di un non meno straordinario Poesia e magia), scrive un’opera capitale per la conoscenza mitologica e del mondo indoeuropeo.
Le mitologie dall’acqua, peraltro universali, esplorate in quel mondo che dal Gange giunge ai Greci, agli Etruschi, ai riti tiberini e alla figura del Pontefice romano, sacerdote del ponte: appunto il mondo indoeuropeo. Il tuffatore di Paestum. Lo specchio d’acqua si distende tra l’albero di sinistra e il trampolino, lì si immergerà il giovane, reso con linea agilissima a nervosa. È una delle grandi opere pittoriche di tutti i tempi, risalente a un autore della Magna Grecia, datata tra il 480 e il 470 a.C. La Tomba del tuffatore, così la battezzò l’uomo che la scoprì, nel 1968, il celebre archeologo Mario Napoli. Lo specchio d’acqua verde-azzurra è il mare: «È in uno specchio d’acqua, quindi sentito e reso come l’aperto mare e che si distende verso l’infinito dell’orizzonte, che si lancia il giovane tuffatore – scrive Napoli – e la pittura rappresenta il transito dell’anima verso la vita ultraterrena, un tuffo verso l’aldilà».
Così la pittura greca rappresenterebbe in forma simbolica l’eterno, prosegue lo scopritore. Il soggetto, un modello esemplare di un’iconografia diffusa nel mondo italico e indoeuropeo: il tuffatore è l’anima del morto, che torna all’acqua da cui tutto ha origine, e intraprende un misterioso viaggio di ritorno. Come scrive Anita Seppilli, la Tomba del tuffatore non è una pittura isolata, ma si inscrive in un complesso di pitture murarie, scene diverse, in cui ricorre il simbolo dell’uovo: e l’uovo cosmico è motivo molto diffuso legato all’origine, nella teologia egizia come nella religione dell’India in cui vediamo le acque dare origine all’uovo d’oro. Simbolo dell’uovo esteso in Polinesia, Indonesia, Perù, la sua presenza in questo ciclo di pitture indica che il destino del tuffatore, il suo viaggio, si inscrivono in una cosmogonia e indicano un esito ultraterreno.
A questa interpretazione si oppone radicalmente Tonio Hölscher, archeologo, autore di uno scritto da poco uscito, Il tuffatore di Paestum. Cultura del corpo, eros e mare nella Grecia antica. (Carocci, pagine 126, euro 16,00). Il tuffatore non è altro che un ragazzo allenato, e bene, ritratto per esaltarne le doti fisiche, centrali nel culto della bellezza dei Greci. Il fatto che poi questo si tuffi in una situazione che è un concentrato di elementi simbolici, è irrilevante per l’autore, che non considera una lettura dell’anima greca che da Kereny a Vernant s’incontra con l’antropologia in Seppilli e oggi in Guidorizzi, limitandosi a definire la cultura del corpo in Grecia (ma Paestum è comunque Magna Grecia, matrice indoeuropea).
L’autore critica l’interpretazione predominante, sostenuta subito dallo stesso Napoli, «simbolica, escatologica, mistica», prodotto di una cultura superstiziosa in cui convivono «il mitico cantore Orfeo» e il «saggio filosofo Pitagora»: cioè i vertici della spiritualità in cui poesia e scienza, visione e metafisica s’incontrano. Libro che non entra nel tema. Si ristampi il saggio in materia di Mario Napoli, si legga con fervore Anita Seppilli. E si guardi, dal vivo la pittura: è l’anima del tuffatore che sta parlando, all’inizio del viaggio.