Società. Più soli nell'era social. Ma la felicità è nella relazione
Se c’è una “fotografia” che ritrae al meglio il disagio dell’uomo del nostro tempo è quella celebre firmata da Munch. Quell’Urlo che squarcia tutto il Novecento è in realtà il grido che si leva forte anche oggi nella nostra società in preda a una drammatica e spesso patologica solitudine. Una condizione esasperata dai nuovi media che ci illudono di essere più connessi quando poi siamo sempre meno in relazione con gli altri. La rottura di ogni legame viene però da lontano, da ideologie funeste che resistono nella disamina dei fenomeni sociali. È illuminante il volume Fragili. La costruzione dell’identità nella società liquida (Franco Angeli, pagine 122, euro 16,50) di Mario Salisci, docente di Sociologia dei processi culturali all’Università Lumsa di Roma: « L’urlo di Munch grida la disperazione della solitudine odierna che non è di tipo esistenziale, ma relazionale. Abbiamo distrutto ogni legame e produciamo identità fragili, funzionali al sistema economico. Quell’Urlo muove il paesaggio, perché ormai è un paesaggio liquido, senza più punti di riferimento. Proprio come la nostra realtà descritta da Bauman in Modernità liquida».
Quando è cominciata questa deriva?
Prima che le nuove tecnologie ci travolgessero, l’individualismo aveva già attecchito nella nostra cultura. Per decenni abbiamo esaltato un malinteso concetto di libertà individuale che ha frantumato tutti i legami specie quelli primari familiari. Basta vedere le conseguenze di divorzi e separazioni. I bambini crescono ammirando i propri genitori e costruendo la loro identità sulla prima e più importante fiducia data loro: quella della mamma e del papà. L’idea che le scelte relazionali siano reversibili e che tutto possa cambiare sulla base del nostro desiderio ha prodotto disastri. Quando i legami diventano instabili o incerti diventiamo fragili anche noi.
Che impatto hanno avuto i nuovi mass media?
Molto forte. In particolare i social network danno l’illusione di poter esorcizzare la solitudine interagendo con più individui in un mondo virtuale. Però a un aumento dell’uso di Internet corrisponde anche la crescita di nuove forme di dipendenza on line come la pornografia o i giochi. Ma attenzione, i social non sono da demonizzare: in una personalità stabile e solida possono diventare uno strumento utilissimo.
I giovanissimi sono quelli più esposti. Lei cita il caso degli adolescenti hikikomori in Giappone…
Sì ma il fenomeno è molto diffuso anche in Italia, con più di cento mila casi. Si tratta in maggioranza di adolescenti maschi che si autoescludono dal contesto sociale, rifugiandosi all’interno della propria stanza e comunicando con il mondo attraverso l’apparato tecnologico. Vengono in media da un contesto familiare in cui la figura paterna è assente o evanescente. La loro fragilità li espone a possibili altre dipendenze come alcol e droghe in età sempre più precoce e per quanto riguarda le ragazze può sfociare anche nell’anoressia o in problematiche affettive.
Perché è così decisiva la scomparsa del padre?
Il papà è la fonte della regola. Colui che ti dice “fino a qui puoi arrivare”. Il “limite” aiuta il soggetto in età evolutiva a gestire i desideri, a incanalare energia e istinti in funzione di un obiettivo più grande. Ma se non c’è più il “no”, se tutto è disponibile sulla base del mio desiderio individuale è facile che diventi schiavo di qualcos’altro. Gli ultimi studi del Cnr dimostrano bene l’associazione tra l’evaporazione della figura paterna e alcune forme di dipendenza o alcuni disturbi dell’apprendimento.
La psicologia, ma anche la medicina e l’antropologia, da tempo riflettono sulla mancanza del padre. Al contrario la sociologia - scrive lei - se n’è occupata molto poco.
Negli ultimi cinquant’anni una parte importante della sociologia è stata egemonizzata da una visione culturale ben precisa. E spesso è servita per giustificare delle posizioni ideologiche molto forti. Pensiamo alle battaglie sull’aborto o sul divorzio: quanti sociologi hanno contribuito a questo dibattito insistendo sul fatto che i legami familiari fossero un impedimento per la libertà dell’individuo, autonomo e indipendente. Analogamente la sociologia di genere ha finito con l’identificarsi in larga parte con le posizioni femministe.
Perché il mercato ha assecondato la rottura dei legami?
La famiglia è anti-economica: produce risparmi di scala notevoli. Pensiamo alle famiglie numerose di un tempo: in casa avevano una lavatrice, un frigorifero, una tv…ma sempre una. Se invece dividiamo questa unità familiare in tanti single i bisogni materiali si moltiplicano. Peccato però che i bisogni psicologici e affettivi seguano un’altra logica. Per cui se una volta la solitudine veniva colmata dai rapporti con fratelli, zii, cugini o da comunità con relazioni dense, ora devo gestirla da solo. E il mercato è pronto a soddisfare questo bisogno, magari con ansiolitici o antidepressivi.
Più si rompono i legami, più il mercato monetizza…
Ma certo. Non a caso l’industria del divorzio è tra le prime del Paese. Sulla rottura dei legami è nata un’industria che coinvolge avvocati, magistrati, psicologi, assistenti sociali, mediatori immobiliari… Una quantità incredibile di figure professionali legate a un bisogno che scaturisce dalla rottura di un legame. È in atto il più grande processo di rimozione dei legami. E dopo quelli interindividuali, oggi vogliamo distruggere anche l’ultima relazione, quella interna al corpo tra biologia e psicologia: è la deriva dell’ideologia gender per cui in base alla mia sensazione decido anche il mio genere sessuale.
Le agenzie educative tradizionali, come la scuola, oggi sembrano molto in difficoltà.
Non mi meraviglio. Il ’68 le ha dato il colpo di grazia... Siamo partiti col togliere le pedane sotto le cattedre per portare professori e alunni sullo stesso livello in nome dell’uguaglianza… Abbiamo così azzerato la differenza tra docente e alunno cancellando l’autorevolezza dell’educatore. Gestire la distanza è fondamentale anche in famiglia: non possiamo essere amici dei nostri figli o porci al loro livello.
Come possiamo invertire la rotta?
Investendo sulle relazioni. Per esempio lo sport è un ottimo antidoto, devi entrare per forza in contatto con gli altri, ci sono regole da rispettare, è una pedagogia formidabile perché esalta il sacrificio e il lavoro. Purtroppo la rottura dei legami ci ha sottratto anche l’anima, del resto anche la fede è una relazione, una forma di fiducia nei confronti di un Altro, Dio, che apre l’uomo a possibilità inedite. Ma oggi che non abbiamo più fiducia negli altri, persino nei nostri genitori, è difficile trasmettere la fede. C’è al fondo un’idea sbagliata di che cosa sia la felicità. Eppure tante autorevoli ricerche nel mondo lo affermano in maniera netta: la felicità di un uomo dipende dalla capacità di creare relazioni stabili, durature e positive. È tempo di prenderne atto».