La mostra a Roma. Sogni e illusioni dei Barberini, politici dell'immagine
Nicolas Poussin, “Morte di Germanico”, 1627
«Quod non fecerunt barbari…». La più celebre della pasquinate ha quasi 400 anni. Era il 1625 quando Urbano VIII fece spogliare il pronao del Pantheon dei suoi bronzi per fonderne i cannoni di Castel Sant’Angelo. E non anche per le colonne tortili del baldacchino di San Pietro, come vuole una tradizione ancora ripetuta, una voce forse messa in circolo dagli stessi Barberini per smorzare il malumore montante tra il popolo romano. Testimonianza dell’abilità della famiglia originaria della Val d’Elsa, parvenu dalla carriera rapidissima capaci di passare dalla mercatura alla carriera ecclesiastica al pontificato nel giro di una sola generazione, nel gestire la comunicazione: a partire dallo stemma in cui i tafani si tramutarono nelle onnipresenti api.
La mostra “L’immagine sovrana. Urbano VII e i Barberini” (fino al 30 luglio), a cura di Maurizia Cicconi, Flaminia Gennari Santori e Sebastian Schütze, allestita a Roma a quattro secoli dall’elezione di Maffeo al soglio pontificio (1623), prende in esame la complessità della dimensione estetica e culturale come strumento e branding politico messo in atto da Urbano VIII e i Barberini, la cui pervasività tentacolare è analoga solo a quella famigliare: andando ben oltre le consuetudini e destando grande scandalo il pontefice fece due nipoti cardinali (Francesco e Antonio) mentre il terzo (Taddeo) fu nominato prefetto dell’Urbe, erodendo con un sistema clientelare e familista le prerogative municipali. Fu proprio in relazione ai Barberini che fu coniato il termine “nepotismo”. E sì che l’avvento di Urbano VIII, un vero outsider del conclave, fu salutato con entusiasmo. “Mirabil congiuntura” la definì Galileo Galilei in una lettera a Federico Cesi: Maffeo, cardinale poeta e protettore delle scienze, era amico di molti Lincei e dello stesso Galilei, un ritratto del quale eseguito nel 1639 – sei anni dopo l’abiura – era esposto nella sala degli uomini illustri della grandiosa “biblioteca barberina”, sita nel palazzo alle Quattro Fontane.
Se dovessimo giudicare solo attraverso il metro della storia delle arti, senza dubbio quello barberiniano è stato un pontificato straordinario. L’investimento nell’immagine (nel senso più lato) dei Barberini – ex mercanti in panni che avrebbero sublimato il passato nella fondazione di una manifattura di arazzi privata attraverso cui celebrare le virtù del casato – ha dato frutti formidabili. In virtù di una serie di altre mirabili congiunture, a partire dall’alleanza con Bernini e Pietro da Cortona e dalla presenza di Borromini per restare solo sul fronte visivo, è con Urbano che nasce e matura quel barocco destinato a connotare Roma come una seconda pelle dopo quella antica, e a disseminarsi in tutto il globo. Il percorso espositivo suggerisce il raffinatissimo gusto collezionistico, la promozione dell’immagine privata e pubblica attraverso una selva allegorica e un’araldica sciamante, la molteplicità degli interessi culturali, la capacità della famiglia di avvalersi degli artisti migliori e soprattutto di scoprirli – come nel caso di Poussin, di cui ritorna per la prima volta a Roma un capolavoro precoce e assoluto come la Morte di Germanico, ora a Minneapolis – arrivando a stringere rapporti pressoché in esclusiva, come con Bernini e Andrea Sacchi, ma anche lavorando con Guido Reni, Valentin de Boulogne, Ludovico Carracci, Francesco Mochi... Artisti la cui compresenza sfata implicitamente l’esistenza di uno “stile Barberini”. D’altronde la netta categorizzazione estetica belloriana sarebbe arrivata solo svariati decenni più tardi.
A queste date sembra ben più importante la varietà dei registri. Lo insegna bene l’opera barocca, che non conosce distinzione tra tragico e comico, come anche l’identità tra registro vocale e genere, e anzi ama mescolare in modo oggi per noi sconcertante. Proprio l’opera e il suo parallelo sacro dell’oratorio ebbero nei due cardinali committenti entusiasti e rivali: l’elemento musicale nell’Urbe del Seicento era davvero ubiquo e forse si dovrebbe considerare l’opera (e in più largo senso la performance urbana della festa e della cerimonia) come il vero luogo di quella sintesi – estetica, religiosa e politica – di tutte le arti a cui aspira il barocco. Eppure questo fasto rutilante maschera ma non nasconde problemi profondi. Accanto a una strategia culturale di successo, capace di proiettare Roma come capitale modello sul fronte monumentale, nel campo della politica reale il pontificato di Urbano VIII fallì in larga parte, fuori e dentro le mura aureliane. Il regno dei Barberini, casata filofrancese, coincise con la Guerra dei Trent’anni. Maffeo, con una politica di apparente neutralità che scontentò tutti, cercò di attestarsi come mediatore per la pace ma l’azione diplomatica, pur riuscendo a evitare che i confini dello stato pontificio venissero lesi, fu marginale.
Sotto il profilo interno, nonostante il nome scelto preludesse a un rapporto privilegiato con la città, l’idillio tra Urbano VIII e il popolo finì rapidamente. Il caso dei bronzi del Pantheon restituiscono in effetti un’immagine predatoria che doveva corrispondere a quella percepita dai sudditi (“papa gabella” lo definì un’altra pasquinata), nonostante la cura esemplare posta nel salvare Roma dalla peste del 1630. Sciagurata fu la scelta della guerra di Castro, intrapresa da papa e nipoti per sottrarre a Odoardo Farnese i feudi da cui dipendeva l’approvvigionamento alimentare della città, che finì in preda alla fame. Quando Urbano VIII morì il 29 luglio 1644 i romani corsero in Campidoglio per distruggerne la statua (la prima eretta in quella sede, contro l’uso, a un pontefice vivente). L’effige si salvò solo perché Bernini si frappose tra lei e la folla, salvaguardando la propria opera e una memoria a lui sì davvero cara.
Valentin de Boulogne “Allegoria dell’Italia”, 1628-1629 - Alessandro Vasari
L’impreparazione strutturale dell’esercito pontificio contrasta per altro con l’immagine che Urbano offriva di sé come pontefice guerriero. Oltre ad avere investito in una spettacolare armeria, oltre 13mila pezzi tra spade, archibugi e armature, lo stesso Maffeo aveva provveduto a porsi sotto l’egida di Michele Arcangelo, identificandosi così come defensor civitatis. Guerra e arte: il modello di Urbano VIII è Giulio II, ricalcato nei successi (la diffusione europea di un cultura visiva “romana”) e nei fallimenti (militari e politici). Papa Barberini è quello che non solo conferisce la forma interna a San Pietro, basilica avviata da Giulio II, ma con il baldacchino risolve anche il problema della crociera dove il predecessore avrebbe voluto la sua tomba. Persino il rapporto simbiotico con Bernini è ricalcato su quello tra Della Rovere e Michelangelo.
In questo senso ha ragione Maurizia Cicconi quando in catalogo (Officina Libraria) definisce Urbano VIII «l’ultimo grande papa del Rinascimento». L’impianto ideologico delle risposte alla novità dei problemi appartiene al passato, anche se in formato gigante. Erano cambiate d’altronde le fattezze e le proporzioni del campo di azione, esteso ormai su più continenti, che richiedeva un costoso adeguamento delle pretese universalistiche di un papato alle prese però con la realtà di un’Europa spezzata irreversibilmente dalla Riforma e nella quale la figura del pontefice, privo di forza militare, era sempre meno rilevante anche per i sovrani cattolici. D’altra parte si manifestano forme di accentramento, come la romanizzazione della missione con la fondazione del Collegio urbano di Propaganda Fide, e il disciplinamento del processo di canonizzazione, sottratto alla vox populi e a iniziative di altre autorità, religiose o secolari, per rivendicarlo alla Sede Apostolica.
Un lungo processo che appronta «un iter totalmente controllato dal papa, cui si affidava la capacità esclusiva di creare santi attraverso un atto di proclamazione solenne, intessuto di parole, gesti e immagini» (Francesco Sorce) e che argina in parte la perdita di autorità e rafforza il principio del primato del papa. Ma lo sguardo non solo di Urbano VIII ma della Chiesa cattolica è in generale retrospettivo. Lo denotano una serie di revival che proseguono un trend successivo al Concilio tridentino, anche con sincera volontà di rinnovamento e spirito apologetico, ma che con i Barberini si amplificano. È il caso del culto dei martiri, rilanciato in ottica contemporanea e missionaria, e più in generale il continuo rifondarsi sulla tradizione, in particolare paleocristiana, di cui il baldacchino è esempio quanto mai icastico ma che si riversa anche in imprese editoriali.
La malattia nostalgica del pontificato che cerca nella storia le prove, vere o fittizie, della sua autorità, è testimoniata dall’insistito ricorso a Costantino, Carlo Magno e Matilde di Canossa come figure, ormai solo retoriche, della superiorità del papato sul potere temporale. Tutto questo non consegnò al pontefice, che si rappresentava sotto il segno della Divina Provvidenza, le chiavi giuste per governare i suoi tempi. Come osserva Schütze, «le grandi speranze di poter conciliare verità teologiche e verità scientifiche, ragion di Stato e scienza nuova, presto naufragarono tra incomprensioni, pressioni politiche e valutazioni drammaticamente errate da ambedue le parti». Quello di Urbano VIII è allora anche il primo pontificato a scontrarsi con le molte dinamiche della modernità e a rispondere con una inane prova di forza. Un autentico punto di non ritorno.