«Solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze». Oscar Wilde lo sosteneva con ironia, sbeffeggiando i benpensanti e il luogo comune dell’abito che non fa il monaco, riaffermando il criterio che la forma è sostanza. Ma non aveva torto: il mondo ci percepisce, ci considera e ci giudica da come ci muoviamo, parliamo, agitiamo le mani, sbattiamo gli occhi, da come ci vestiamo, arrossiamo o balbettiamo. Le apparenze sono il fondamento di quel che sappiamo degli altri e di ciò che gli altri sanno di noi; sono il medium della comunicazione e la sostanza del mondo condiviso. Questione serissima dunque, benché svalutata da una certa tradizione “romantica”, che ha considerato il mondo delle apparenze come una realtà inferiore, relegata in un’area di indagine subordinata, regno del futile e del vano, dell’artificio e dell’ingannevole opposto al regno dell’essere sincero, trasparente e autentico. Un velo che maschera la sostanza del reale o addirittura una patologia della modernità, l’alienazione implicita nella società dello spettacolo in cui la manipolazione e la menzogna oscurano la realtà autentica dei soggetti. Ecco il nodo da cui prende le mosse l’indagine di Barbara Carnevali, storica della filosofia, ricercatrice invitata all’ "Institut d’Etudes Avancées" di Parigi, in un saggio da poco pubblicato da Il Mulino, intitolato
Le apparenze sociali. Una filosofia del prestigio (pagine 222; 20 euro). Un progetto di filosofia dell’apparire sociale a partire proprio dall’analisi delle vanità, di quel mondo effimero in cui rientrano le mode, la fama, il successo, il prestigio, le buone maniere, lo snobismo, i pettegolezzi, e che non è una forma minore di realtà ma l’assetto sensibile della società dove si giocano come uno spettacolo le immagini che le persone hanno reciprocamente di se stesse. L’ estetica sociale alla quale Barbara Carnevali ci introduce illumina le leggi e i fenomeni che reggono la Fiera delle Vanità dal suo interno secondo il doppio significato che la filosofia ha attribuito al termine estetica, come oggetto di sensazione e di percezione sensibile o come prodotto di un lavoro, di una tecnica o di un’arte, che plasma e trasforma le apparenze. «Le apparenze contano, e tutti lo sappiamo – spiega la filosofa – perché tutti comunichiamo tramite apparenze, esprimendo e rappresentando ciò che siamo nello spazio pubblico e interpretando l’immagine che gli altri a loro volta vi disegnano. L’errore romantico non è tanto quello di aspirare alla sincerità e alla autenticità, quanto pensare che per raggiungere questi valori si possa cancellare o aggirare la mediazione estetica dell’apparire nei rapporti sociali. Solo avendo compreso e accettato questo si potrà pensare alla possibilità di un uso più autentico, più onesto e intimo delle apparenze». Nell’intraprendere questo lavoro Barbara Carnevali, si è presto resa conto che non era possibile ripercorrere solo la strada di critici come Guy Debord, che spiegano la spettacolarità contemporanea con il paradigma dell’alienazione capitalistica o con il principio dell’onnipervasività della merce. «Bisognava – racconta – cercare un nuovo modello interpretativo che spiegasse come mai nella storia si fosse prodotto un altissimo grado di spettacolarità anche in culture come la Grecia classica o la società di corte, che non hanno conosciuto il capitalismo; e che si interrogasse sul grado di spettacolarità ordinaria, ineliminabile dalla vita di qualsiasi corpo sociale sano (quella che chiamo estetica sociale) per poi provare a cogliere la natura specifica del presente. In altre parole, se vogliamo capire perché la vanità, l’esibizione, la pubblicità, dominano la nostra vita attuale in dimensioni che percepiamo eccezionali e grottesche, dobbiamo prima capire come questi fenomeni agiscono nel quotidiano. Come in medicina anche in filosofia sociale bisogna conoscere la fisiologia di un organo per poterne diagnosticare e curare la patologia». E difatti il libro mette a fuoco il funzionamento fisiologico delle apparenze sociali, aprendo ed esplorando un campo di ricerca attorno alle rappresentazioni offerte, da ogni esibizione o nascondimento di sé, allo sguardo e all’apprezzamento pubblici. Analizzando e decodificando i linguaggi fatti di sguardi, gesti, posture, e cerimonie che rappresentano la maschera di cui tutti ci dotiamo nella comunicazione sociale, e infine addentrandosi tra i segni del riconoscimento sociale, Barbara Carnevali approda alla filosofia del prestigio, segnalata dal sottotitolo del saggio, cuore dell’estetica sociale, per esplorare il ruolo delle apparenze nelle gerarchie sociali e nei rapporti di potere. «La filosofia del prestigio - racconta la ricercatrice - riflette su quelle qualità misteriose che chiamiamo
fascino, glamour, chic, charme, che ci fanno attribuire a determinate persone, oggetti o ambienti un’aura di affascinante superiorità e che vengono percepite, prodotte, manipolate e riprodotte mediaticamente. Poiché la produzione dell’aura si compie in modo artificiale, con mezzi estetici e attraverso specifiche "arti", la filosofia del prestigio si interessa in particolare alle tecniche con cui si impara a nobilitare le apparenze a livello sia amatoriale che professionale: dalla cosmesi alla pubblicità, dal marketing alla moda, dalla buona educazione alla propaganda». Il che rivela tutta l’illusione magica che regge l’intero ordine sociale. Del resto prestigio viene dal latino
prestigium, cioè artificio, illusione, incantesimo, una forza magnetica al tempo stesso attraente e minacciosa che seduce senza costrizione come l’autorità di leader, il fascino di una bella donna o di un uomo di uniforme, l’attrazione di una stella del cinema… Ma se come esseri sociali, giochiamo a truccare le carte e non facciamo che recitare parti e interpretare figure, tanto basta a considerarci tutti un artificio, come dichiarava, non senza sofferenza, Marilyn Monroe di sé? «Il fatto che ci sia una parte sostanziosa di artificialità in tutti noi non vuole necessariamente dire che non possa esistere alcuna dimensione di naturalezza e spontaneità. La stessa Marilyn non ha smesso di cercarla, ribellandosi a quella stessa immagine che si era costruita con le proprie forze e non solo per ingerenza degli
Studios come vuole la leggenda romantica. Marilyn si truccava pesantemente fin da ragazzina e lo faceva con una maestria tale da ottenere il rispetto dei maggiori professionisti di Hollywood. Ho l’impressione che naturalezza e spontaneità siano più esigenze nate in relazione allo sviluppo della sfera artificiale percepita come troppo pesante e incontrollata, che esperienze originarie e immediate». Di fatto le immagini persistono a distanza, nello spazio e nel tempo. «La fama, la reputazione e la celebrità sono parti di noi che sopravvivono oltre la morte e sono ciò che il mondo conserverà di noi. È una verità difficile da accettare ma che ha anche un lato affascinante, l’idea che un individuo non consista solo nell’idea che ha di se stesso ma anche della sua realtà sociale più effimera e apparente. E ciò spiega perché certe culture, come quella greca, abbiano dato così tanta importanza al controllo e alla cura delle apparenze sociali in vita e oltre». Guardando a ritroso, la storia suggerisce che il prestigio logora chi non ce l’ha. La nobiltà è sempre esistita apparendo, la borghesia ha voluto apparire e dovuto imitare. Prendete Madame Bovary, la quintessenza dello snobismo piccolo-borghese, un’esistenza sciupata imitando la vita alla maniera nobile, nella speranza diventata ossessione tragica di acquisire la misteriosa qualità che sentiva mancare alla sua mediocre esistenza.