Lo studio. Vita digitale e dolore reale: la violenza corre sulla Rete
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Sembrava solo una candida favola cinematografica quella del film Her (“Lei”, 2013) di Spike Jonze: chiacchierando con un’applicazione a cui ha dato una voce femminile (si chiama “Samantha”; nell’originale, ha la voce di Scarlett Johansson), Theodore rimane sedotto dalla sua abilità di imparare, di intuire le emozioni di lui (di avere, come si dice tecnicamente, una “teoria della mente”) e di mostrare uno sviluppo psicologico. Il legame tra i due si fa sempre più stretto, e Theodore si innamora perdutamente.
Ma questa è solo in apparenza una favola. Il rapporto con il mondo digitale può tradursi in fatti tragici, come quello accaduto qualche mese fa a Orlando (Florida, Usa), venuto alla luce da poco. Il quattordicenne Sewell Setzer si è tolto la vita per essersi innamorato di un chatbot, cioè un’applicazione di Intelligenza Artificiale capace di conversare come gli umani. Non sappiamo se il ragazzo avesse qualche sottostante problema di salute mentale, o fosse semplicemente un hikikomori, cioè uno che, come ormai si dice con termine giapponese, “sta da parte”, attaccato tutto il giorno a qualcuno dei suoi gadget elettronici fino a perdere il contatto col reale. Quel che colpisce è che, deluso da un incontrollabile innamoramento con un’entità virtuale, ha deciso di farla finita.
Il mondo virtuale deborda quindi nel reale? Quello del povero Sewell è certo un caso estremo, ma non è certo la prima volta che Internet, attraverso smartphone o altro strumento elettronico, induce, stimola o favorisce forme di violenza, contro sé stessi o contro gli altri. L’ospedale Bambino Gesù di Roma ha riportato nel 2021 un forte incremento dei ricoveri di adolescenti che hanno tentato il suicidio, attribuendolo al covid. Ma, nel 2022, a pandemia praticamente esaurita, i giovani presentati al pronto soccorso per tentato suicidio sono stati 387 (il 90% ragazze). Una parte importante di queste emergenze è collegata al mondo virtuale, a quella che in diverse occasioni ho chiamato “la mediasfera”.
Qualche altro dato quantitativo ci aiuta ad approfondire questa prospettiva. Una ricerca Istat di qualche mese fa (Nuove generazioni sempre più digitali e multiculturali) ha mostrato che quasi l’85% dei ragazzi tra gli 11 e i 19 anni dispone di un profilo su un social network. Nella fascia 17-19 anni la percentuale supera il 97%. Uno studio dell’Università Cattolica ha rilevato che in media i ragazzi passano online1-3 ore al giorno, uno su cinque supera le 4 ore, sebbene il 40% di loro abbia avuto “esperienze negative” in rete. Ma che cosa possono mai fare questi giovani stando online per tante ore? Le app di cui fanno uso intensivo (TikTok, Instagram e altre che vengono lanciate di continuo) non servono solo per diffondere notizie, immagini, musica e a fissare appuntamenti. Forniscono un canale per compiere, o indurre altri a compiere, diverse altre operazioni che, portando allo scoperto propensioni maligne della specie umana, inducono a forme diverse di violenza o a pratiche pericolose. Per indicarle sono nati perfino alcuni termini tecnici. Si chiama per esempio challenge la “sfida” via social networks a gareggiare nelle prestazioni fisiche più assurde (perlomeno agli occhi degli adulti ancora in sé) ed estreme. Chi è sfidato non può ritirarsi, a costo di apparire codardo e di esporsi così a un’altra delle minacce fatali della rete, cioè il mobbing. C’è il balconing, che consiste nel saltare da un balcone all’altro o nello sporgersi fino all’estremo. Gioco pericolosissimo: alla fine di ottobre a Piacenza una ragazza di quattordici anni è morta precipitando dal settimo piano, probabilmente per un gioco di questo genere. Alcune di queste pratiche sono dirette a danneggiare gli altri. Sono ben noti terribili fenomeni come il revenge porn, lo hate speech (“discorso d’odio”), il bullismo online, l’istigazione al suicidio, la condivisione di immagini esplicite, anche di adolescenti e bambini, e la formazione di concezioni brutali del rapporto tra i sessi.
Ad alcuni di questi temi è dedicato il recente libro di Francesco Striano, Violenza virtuale (Il Saggiatore, pagine 216, euro 16,00), che si concentra (come recita il sottotitolo) sul nesso tra “vita digitale e dolore reale”. Striano costruisce un esteso repertorio delle pratiche virtuali che producono dolore, violenza e morte, accennando anche a un aspetto di solito trascurato della “vita digitale”: il fatto che online si possano creare “gruppi” di sostegno e propaganda di questa o quella forma di violenza (o di follia ideologica), incluso il cyber-stupro, che così acquistano una qualche forma di legittimità. Ha quindi il merito di gettare luce su una nuova dimensione della vita digitale: la rete serve anche per fare del male e questo suo aspetto è ormai diventato – ci piaccia o no – un tratto specifico della modernità.
Non tutto di questo libro è però convincente: si proclama curiosamente un’opera “femminista”, si concede varie indisponenti libertà autobiografiche, si aggroviglia in formulazioni mainstream, di cui potrebbe fare a meno senza danno alcuno. Ne do un singolo esempio prima di tornare al tema. Verso la fine, dopo aver dichiarato che il suo lavoro vuole «essere d’aiuto soprattutto agli uomini» a rendersi conto della loro «complicità [con la violenza online, come “misogin[i] passiv[i]”» per rispondere alla domanda: «cosa possiamo fare per smettere di produrre maschi violenti?», l’autore esce in una conclusione come questa: «In una lotta trasversalista e intersezionale è necessaria un’alleanza di teoric*, tecnic*, attivist*: […] in cui, però, ogni persona possa offrire i propri strumenti per la decostruzione del sistema socio-tecnico cis-etero-patriarcale e, perché no, per la costruzione di un’alternativa che, forse, non sappiamo bene quale sia…».
Il libro, per fortuna, non è scritto tutto così. Aspettando che “l’alleanza” qui preconizzata trovi l’alternativa giusta, conviene salvare alcune buone idee che il testo propone, come la critica al “doppio mondo”. Secondo quest’idea, il mondo virtuale è del tutto distinto da quello reale: chi lo frequenta è costretto a “cambiare” identità, a crearsi un “avatar”. Questo però, essendo immateriale e “altro”, è sollevato da ogni responsabilità. Il “modello dei due mondi” rende così le violenze digitali meno reali di quelle fisiche, “le pone su un piano di realtà differente”. Perciò, se c’è qualcuno da punire per una violenza istigata o perpetrata online, non è l’iniziatore umano dell’azione violenta, ma il suo avatar – che però è inafferrabile, materialmente irreperibile, talvolta perfino non corrispondente a alcun umano reale. Questo fatto deresponsabilizza gli iniziatori di atti violenti e disorienta il giudizio del magistrato, che può non riuscire a definire con chiarezza a chi la violenza debba essere attribuita. C’è una violenza digitale anche nel restare inerti. Il digitale opera infatti una trasmutazione della realtà: la trasforma in pixel, producendo così un brutale effetto di estraniamento disumanizzante. Chi si trova dinanzi a un evento anche tragico può preferire farne un video piuttosto che soccorrere.
Come trovare l’“alternativa” a cui il libro di Striano si appella? Non si tratta solo di inventare leggi (come il “Codice Rosso”, la legge approvata dal Parlamento nel 2019 per far fronte alla violenza sulle donne), ma di agire sulla mente degli umani (maschi, ma anche femmine), soprattutto i giovani, che dal mondo digitale, nel quale si svolge ormai larga parte della loro vita, traggono convinzioni e ideologie aberranti. Aiuta a saperne di più la recentissima “Survey Teen”, di un’organizzazione (la Fondazione Libellula) impegnata specificamente contro la violenza e la discriminazione delle donne. I 1.592 adolescenti tra i 14 e i 19 anni interrogati a proposito della violenza di genere hanno fornito informazioni gravi ed estremamente preoccupanti. Un giovane su cinque ha ricevuto strattoni da parte del o della partner, più di uno su dieci ha preso pugni, schiaffi, calci e lanci di oggetti. In altre parole, nei rapporti “sentimentali” una certa dose di violenza fisica è normale e inevitabile. Inoltre, una persona su tre ritiene che se “le ragazze dicono di no, in realtà intendono sì”: il consenso è quindi marginale. Per la metà degli intervistati la gelosia maniacale non è una forma di violenza, ma un segno di interesse, per il quale ci si aspetta gratitudine. Anche lo stalking è minimizzato: il 40% degli adolescenti non sa di che cosa si tratti e considera normale che si inviino messaggi e telefonate a raffica. Del pari è normale il , cioè la condivisione di contenuti espliciti non richiesti. Per un terzo del campione non è segno d’ amore controllare gli spostamenti del partner e indagare sui suoi followers nei social, come pure decidere come può o deve vestirsi. Costringere qualcuno ad avere rapporti sessuali è giusto per il 14% dei ragazzi e il 2 delle ragazze.
In sostanza, questi giovani non si rendono affatto conto di quanto sia violento il mondo che si sono apparecchiato. Hanno di fatto assorbito i principi della rape culture, l’atteggiamento che minimizza la gravità della violenza e dello stupro, in base al presupposto che l’uomo sia intrinsecamente un predatore e la donna una preda. Tutto quest’universo aberrante (alimentato da vari ingredienti della cultura giovanile, come la musica trap, l’uso di droghe e alcol, l’esaltazione del corpo, il precoce accesso alla sessualità) ruota attorno al mondo virtuale, che lo favorisce, lo diffonde e lo normalizza. Basterà proporre, come ora in Francia, una “tregua digitale”, cioè proibire che lo smartphone entri nelle scuole? Ma chi si preoccuperà del compito più difficile: sradicare la rape culture dalla mente dei giovani?