Già all’indomani della marcia su Roma, con l’effettiva presa di potere e il conseguente assestamento in chiave governativa, la realizzazione di nuove opere pubbliche doveva rispecchiare la visione dell’Italia rappresentata dal Fascismo, quel generalizzato ritorno all’ordine insieme alla rivisitazione dei fasti imperiali e a un attivismo non soltanto simbolico, grazie proprio al compito primario incarnato dall’architettura, “regina delle arti” secondo l’opinione dello stesso Mussolini. Opere che comprendevano edifici pubblici e strutture funzionali al regime, Case del fascio, Case del balilla e delle corporazioni, oppure progetti ambiziosi atti a sintetizzare passato e futuro, civiltà italica e slancio avveniristico, come la bonifica dell’agro pontino con la fondazione di intere città concepite in stile razionalista, Littoria – ribattezzata nel 1946 col nome di Latina – e Sabaudia su tutte.Un’architettura magniloquente la quale, caratteristica comune alle dittature, si riproponeva a mo’ di riflesso celebrativo, tangibile e immediatamente intelligibile delle vittorie, assolute e in divenire, del fascismo. Da una parte l’imponenza di costruzioni contraddistinte da linee severe, dall’altra l’arte figurativa con un ruolo spesso didascalico, rigido e poco autonomo, che subentrava nel programma decorativo per immortalare in modo diretto l’epica del Duce e i destini gloriosi dell’impero risorto sui colli fatali di Roma. Molteplici opere di grandi dimensioni trovano così spazio nei maestosi saloni di rappresentanza dei palazzi disegnati dagli architetti razionalisti. Si tratta di affreschi, pitture murali e mosaici, di sculture e bassorilievi classicheggianti firmati dai più conosciuti - e riconosciuti - esponenti di quell’arte nazionale che annoverava, al proprio interno, personalità con differenti storie e una più o meno provata fede fascista.Il caso dell’affresco allegorico
L’Italia tra le arti e le scienze, realizzato nel 1935 da Mario Sironi (1885-1961) nell’aula magna della nuova cittadella universitaria di Roma, caso sollevato e discusso in questi mesi dalle pagine di “Avvenire”, ha riportato alla ribalta l’operazione di “defascistizzazione” che colpì, in maniera incisiva o lieve, quasi tutti gli interventi marcatamente ideologici eseguiti durante il ventennio: un provvedimento censorio posto in atto dopo la Liberazione. Toccò nel 1947 a Carlo Siviero, pittore agli antipodi del novecentista Sironi, il compito di cancellare dall’opera simboli e riferimenti del Ventennio: il risultato è l’affresco come lo scorgiamo oggi, ben poco “sironiano”. In occasione del restauro che si concluderà nel 2016, si è innescata la querelle se procedere e recuperarlo così com’è, oppure ripristinarne laddove possibile la versione precedente, più aderente alla visione dell’autore. Una questione di valenza storico-estetica, che deve comunque tener conto della diversità degli artisti partecipanti ai cicli decorativi dei palazzi del fascismo e i destini, altrettanto diversi, subiti dalle loro opere dopo il 25 aprile 1945.Paradigmatico, in tal senso, è il mosaico sempre di Sironi
Il lavoro fascista, titolo cambiato successivamente in
L’Italia corporativa, eseguito nel 1936 per una sala del Palazzo dell’informazione di Milano, in cui si stampava all’epoca “Il Popolo d’Italia”. Caduto il fascismo, il mosaico fu semplicemente coperto da un telo, lasciando che il tempo ne logorasse tessere e colori. Fu il critico Agnoldomenico Pica a insistere perché
L’Italia corporativa venisse di nuovo resa accessibile al pubblico.
Destino meno avverso ma non meno polemico per l’affresco del 1937 di Primo Conti (1900-1988) in un’aula del Palazzo di Giustizia di Milano, dove campeggia la scritta “La legge è uguale per tutti”. L’opera riporta il Cristo in trono attorniato dai potenti della terra, tra cui in prima fila e a figura intera Mussolini. La Giustizia del cielo e della terra, questo il titolo, fu oggetto di aspre critiche già prima dell’inaugurazione, quando qualche gerarca fece notare l’ambiguità della presenza del Duce tra i “giudicabili” al cospetto del trono divino. Difeso da Bottai, Grandi e Piacentini, l’affresco riuscì a scampare alla minaccia di completa scialbatura, mentre a guerra conclusa il ritratto di Mussolini verrà ricoperto da un vistoso strato di vernice, fino al restauro nel 2008. E, col ripristino, tornano le polemiche per la ricomparsa del Duce in tribunale.Corrado Cagli (1910-1976), sostenitore con Sironi del muralismo, a fine anni Venti completa a Umbertide, in casa Mavarelli-Reggiani, un affresco di 60 metri sulla Battaglia del grano. Nel 1935, l’Opera Nazionale Balilla gli commissiona due pitture murali per la propria sede, l’edificio di Castel de’ Cesari a Roma. Una delle opere rievoca La corsa dei barberi, argomento ritenuto poco adeguato dalle autorità che ne ordinano l’immediata distruzione. Un esempio conclamato, in questo caso, di autocensura fascista. Con le leggi razziali del ’38 Cagli, nipote dello scrittore e saggista Massimo Bontempelli, è costretto a fuggire dall’Italia: si arruola nell’esercito americano e partecipa allo sbarco in Normandia.Luigi Montanarini (1906-1998) esegue nel 1936 la pittura murale Apoteosi del Fascismo nel Salone d’onore del Coni al Foro italico, proprio alle spalle del tavolo della presidenza; qui, oltre a fasci e simboli vari del ventennio, compare uno statuario Mussolini ad arringare la folla di camicie nere. Invece di essere “defascistizzata”, che voleva dire in effetti la sua totale abrasione, l’opera è stata coperta fino al 1997 da un panno verde con impressi i cerchi olimpici: il suo svelamento ha trascinato con sé un’ondata di polemiche. Una dimostrazione di quanto sia necessario – e arduo – fare i conti con la storia, più che con l’arte.