Agorà

REPORTAGE. Siria, un monastero in terra islamica

Giorgio Paolucci domenica 6 febbraio 2011
Il sangue dei martiri porta frutto. Non è retorica in salsa cattolica: è una realtà che si rende visibile incontrando la piccola comunità trappista che da pochi mesi si è insediata sulla collina di Azeir in Siria, vicino al confine col Libano, una zona a prevalenza musulmana con qualche villaggio cristiano. Una comunità di sette persone, come erano sette i monaci uccisi nel 1996 a Tibhirine, in Algeria, e raccontati mirabilmente dal film Uomini di Dio. Cinque suore italiane, una arrivata dal Belgio e il cappellano francese, che animano il monastero cistercense di Nostra Signora Fonte della Pace, nato per iniziativa della loro casa fondatrice di Valserena, in provincia di Pisa. «La morte dei nostri fratelli in Algeria ci ha segnato profondamente e ha fatto rinascere la domanda sul senso di una presenza cristiana in terra islamica – racconta suor Marta, la superiora –. L’eredità che ci hanno lasciato, più forte della morte, è la testimonianza di una vita totalmente offerta a Dio e agli uomini che li circondavano, musulmani e cristiani. Ed è questa l’intenzione che muove anche noi, e ci provoca a rinnovare la nostra adesione a Cristo come l’unica fonte a cui attingere ciò che fa vivere». Per cinque anni le sorelle hanno vissuto in un appartamento di Aleppo messo a disposizione dal vescovo latino, Giuseppe Nazzaro, cimentandosi con lo studio dell’arabo e mettendo a punto il progetto del monastero. Poi il trasferimento sulla collina di Azeir in quello che chiamano "monasterino", la piccola costruzione che ospita le celle e la cappella, ma che in futuro diventerà una foresteria per pellegrini e visitatori, mentre il monastero vero e proprio dovrebbe sorgere nell’area adiacente (info: valsyr@scs-net.org e www.valserena.it). L’ora et labora della regola benedettina si traduce nei sette momenti di preghiera – dalle "vigilie" alle 4 del mattino alla compieta delle 19.30 – e in alcune attività legate ai primi passi della comunità. In attesa che sia terminato il locale dove verrà ospitata la lavorazione artistica del vetro – che in Siria è molto apprezzata e potrebbe aprire interessanti sbocchi di mercato per il sostentamento della comunità –, vengono realizzati alcuni manufatti più semplici come statuette in gesso, rosari, piccoli oggetti. Nel terreno circostante, le sorelle si dedicano alla cura delle piante d’ulivo già presenti nella proprietà e stanno impiantando un piccolo frutteto e le prime colture orticole. Oltre al progetto costruttivo, infatti, sono state pianificate la coltivazione di una parte dei dieci ettari di terreno e la cura dell’area con piante e giardini, per offrire agli ospiti un luogo di bellezza che favorisca la preghiera e la meditazione. Continua intanto il difficile e affascinante lavoro di traduzione della liturgia in arabo, avviato già durante la permanenza ad Aleppo, per dare sostanza all’idea di inculturazione della fede, che è alla base di questa esperienza. Un lavoro reso arduo dalle molte sfumature linguistiche e dalla difficoltà di trovare termini adeguati che esprimano la visione teologica ed antropologica della spiritualità benedettina e della tradizione cisterciense. «Ma questo è un passaggio necessario – spiega la superiora suor Marta, che abbiamo incontrato nei giorni scorsi durante un viaggio in Siria promosso da Russia Cristiana – per non restare estranee a questa terra: parlare e pregare in arabo ci fa sentire ancora di più parte di questo popolo, che apprezza la nostra scelta di vivere qui. Ci vedono pregare, occuparci delle costruzioni, lavorare i campi, nell’ordinarietà della vita quotidiana. Per ora è soprattutto chi partecipa alla nostra preghiera liturgica che intuisce come la nostra esistenza sia determinata tutta dalla ricerca della presenza di Dio. In questi mesi sono nate amicizie semplici con gli abitanti del villaggio ai piedi della collina, molti dei quali lavorano per noi; e qualcuno vuole conoscere la nostra storia. Scoprono così la vicenda umana e spirituale di san Benedetto che, come ai suoi tempi, continua a indicare il cammino per una umanità più piena». In realtà, la spiritualità benedettina ha radici storiche lontane in questa regione. Nel medioevo, quando ancora la "Grande Siria" comprendeva Libano e Palestina, si contavano circa undici monasteri cisterciensi, tutti cancellati dalla conquista islamica. Molto più tardi, in seguito alle leggi anticlericali del 1879, che in Francia minacciavano la vita contemplativa, alcuni monasteri crearono luoghi di rifugio per ospitare i monaci francesi espulsi.Così nel 1882 a nord di Aleppo venne fondata la trappa di Akbès, dove ha soggiornato Charles de Foucauld; di essa ormai non esiste più traccia, in seguito alle persecuzioni turche del secolo scorso. Oggi quello di Azeir è l’unico monastero, in Siria, che segue la regola benedettina e la sua fondazione è uno dei segni che testimoniano la libertà di cui godono i cristiani in questo Paese, dove rappresentano il 10 per cento dei 22 milioni di abitanti. Una libertà relativa, beninteso, figlia di quella particolare laicità che caratterizza la politica di Assad, che salvaguarda l’autonomia di ogni gruppo etnico o religioso ma non contempla la possibilità di abbandonare l’islam per abbracciare un’altra religione. Una libertà comunque più ampia di quella vigente nei Paesi a maggioranza araba, specie in tempi in cui persecuzioni e discriminazioni si moltiplicano. La gente del luogo guarda queste donne con curiosità e rispetto, «anche se quando chiedono chi siamo è difficile spiegarlo con le parole: la vita comunitaria dei monaci è una rarità da queste parti, dove spesso i religiosi vengono identificati come gente che fa assistenza, che si occupa degli altri. Noi non abbiamo un’occupazione sociale rivolta verso l’esterno: ci "occupiamo" di noi stesse, cioè della nostra conversione al Vangelo. E questo spesso viene percepito e fa nascere domande, specialmente tra i giovani, assetati di qualcosa che trascenda la dimensione materiale». Suor Marita racconta un episodio più eloquente di tante parole. Quando ancora il "monasterino" era un cantiere aperto, e le monache vivevano ad Aleppo, viaggiando sull’autobus che le portava alla Messa, l’abito religioso ha attirato l’attenzione di una donna. Dopo aver raccontato della sua pena, ha scritto una preghiera sul biglietto dell’autobus e glielo ha affidato dicendo: «So che sei una suora, adesso vai in chiesa, vero? Porta questa mia supplica ai piedi della Madonna. Prega perché ascolti il mio dolore e perché Dio abbia misericordia di me». Era stata da poco ripudiata dal marito, chiedeva alla Vergine che l’aiutasse a rivedere i figli che le erano stati tolti. «Non ci siamo più riviste, ma porto per sempre nel cuore quello sguardo implorante – racconta suor Marita –. Abbiamo tutti bisogno di essere guardati dalla misericordia di Dio». Un segno molto amato di questa misericordia è appunto la figura della Vergine, oggetto di grande devozione per i cristiani come per i musulmani (anch’essi la venerano come madre di Gesù): il monastero, secondo la tradizione cistercense, è intitolato a Maria, Nostra Signora Fonte della Pace, come ricorda la scritta in arabo sulla croce di fondazione piantata in cima alla collina. «Abbiamo scelto questo nome perché per noi la pace è Cristo, e Maria è la madre che offre la pace a tutti». Non sanno quale futuro le aspetta, queste figlie di san Benedetto, ma dal seme che hanno piantato sono già nati germogli. Proprio come accadde ai loro fratelli di Tibhirine, in Algeria.