La mostra. Fede e sirene: gli Etruschi che non t’aspetti
“Sirena”, particolare di un’anfora attica del V secolo a.C.
Al principio erano geni della morte come le Keres e le Erinni, esseri temibili come le Arpie, che il mondo antico considerava morti senza pace (un po’ come i nostri zombie) e desiderose di sangue umano. Stiamo parlando delle Sirene di cui racconta Omero: donne con ali di uccello e dal canto ammaliante, che tentano di sedurre Ulisse per poi perderlo, come è dipinto in un famoso vaso attico del V secolo a.C conservato al British Museum. In epoca più tarda si narra di una di esse, di nome Partenope, che muore suicida in mare per essere stata rifiutata dall’eroe; le onde la rigettano alla foce del Sebeto, dove in seguito nasce una città chiamata, appunto, Partenope e poi Neapolis. Da quelle parti, sulla penisola di Sorrento, sorgeva anche il Tempio delle Sirene. Tutto questo per dire, e non sembri strano, che le Sirene con corpo di donna e coda di pesce in stile Andersen ( La sirenetta è del 1837), rese romanticamente immortali dalla statua nel porto di Copenaghen (1913), hanno origine solo nel primissimo Medioevo, mentre in epoca antica gli esseri per metà uomo e metà pesce erano maschi e si chiamavano Tritoni. Di essi esistono tante testimonianze artistiche, anche coeve al citato vaso del British, come un’anfora etrusca con 'Tritone fra i pesci' del VI secolo a.C e un’anfora attica dello stesso periodo, proveniente da Cerveteri, con 'Eracle in lotta col tritone', entrambe a Villa Giulia a Roma. Di fatto, il primo riferimento certo alle Sirene così come sono nel nostro immaginario è un manoscritto dell’VIII secolo, il famoso Liber Monstrorum, una sorta di bestiario in cui compare un disegno che le descrive come donne avvenenti e anfibie. Delle Sirene e della loro storia mitologica si è tornati a parlare in queste settimane grazie a una piccola ma efficace mostra allestita nel Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma. La collocazione la si deve a un curioso reperto etrusco del III secolo a.C. conservato in quel museo, che costituisce un singolare tipo di ex voto (trovato a Veio) e che era sempre stato interpretato quale grossolana rappresentazione in terracotta della parte inferiore del corpo di un essere umano di sesso maschile. Quando però quest’anno, in occasione del decennale della Fondazione sanitaria San Camillo-Forlanini di Roma, si è pensato di allestire u- na mostra a Villa Giulia, insieme al Museo di storia della medicina della Sapienza, per raccontare l’arte medica antica partendo dai ritrovamenti archeologici di ex voto anatomici, ecco che il 'grossolano' reperto proveniente da Veio è stato rivalutato ed è divenuto il simbolo stesso dell’iniziativa. Nel vederlo, infatti, Alessandro Aruta, direttore del Museo storico della medicina, ha subito compreso che non si trattava di una riproduzione approssimativa, ma verosimile del corpo di un uomo affetto da 'sirenomelia'. Una malattia genetica rarissima, che di solito colpisce il sesso femminile, per la quale gli arti inferiori restano saldati, assumendo, in alcuni casi, una vera e propria forma a coda di pesce o, meglio, di cetaceo. Di solito i bambini nati con questa deformazione hanno vita brevissima e sono incurabili. Recentemente si è tentata la terapia chirurgica, che come nel caso di una bambina peruviana, Milagros Carron, nata nel 2004, può avere esito risolutivo dopo innumerevoli interventi.
La scoperta di Aruta, dicevamo, ha dato il taglio alla mostra che si intitola La Sirena: soltanto un mito? Nuovi spunti per la storia della medicina fra mito, religione e scienza (fino al 30 settembre), col progetto scientifico, oltre che di Aruta, di Maria Paola Guidobaldi, responsabile dell’Ufficio mostre e del Servizio per la conservazione di Villa Giulia (ad 'Avvenire' ha detto di avere in programma entro l’anno una retrospettiva in chiave etrusca dell’opera di Mario Schifano per i 20 anni dalla morte), Claudia Carlucci, Maria Anna De Lucia Brolli e Francesca Licordari. Allestita nella Sala Venere del Museo propone ex voto anatomici, vasi con decorazioni di sirene, strumenti medici e chirurgici d’epoca romana, interessanti supporti storici in schede e immagini con riferimenti ad altre malattie rare che gli Etruschi (popolo particolarmente religioso) consideravano, rispettandole, prodigiose e soprannaturali. Fra le riproduzioni anatomiche trovate in scavi etruschi, oltre alla già citata terracotta proveniente da Veio, sono interessanti alcuni uteri offerti a divinità salutari per ottenere la grazia di avere figli o in ringraziamento per averne avuti. Uno di questi, in particolare, risalente al III secolo a. C. e proveniente da Vulci, testimonia di una positiva ed evoluta concezione della vita: rappresenta un utero aperto con all’interno due minuscoli embrioni. Ci sono anche alcuni amuleti di origine egizia (attraverso i fenici esistevano intensi scambi commerciali fra le popolazioni tirreniche, l’Egitto e la Grecia) utilizzati a protezione dei nani. Per identificare queste 'malformazioni' gli etruschi usavano parole derivate dalla radice ter col significato di 'prodigioso', la stessa del termine greco teras (mostro), forse successivo. Lo si è scoperto da scavi effettuati nell’area sacra di Tarquinia col ritrovamento del cosiddetto 'bambino encefalopatico' sepolto nel IX secolo a.C. accanto a una cavità naturale, fulcro dell’area sacra e luogo dell’identità della città stessa. Da quella cavità, infatti, si narrava fosse nato Tagete, il bimbo divino con sembianze di vecchio (la malattia si chiama 'progeria' ed è la stessa del film Il curioso caso di Benjamin Button) che aveva insegnato le discipline divinatorie a Tarconte, fondatore di Tarquinia. Dalle indagini del laboratorio di antropologia forense della Statale di Milano è emerso che quel bimbo del IX secolo a.C., morto a otto anni, era affetto da una encefalopatia che certamente causava epilessia, con manifestazioni considerate sacre per molto tempo a seguire e a tal punto che è stata trovata un’iscrizione etrusca su una coppa attica (gli Etruschi erano amanti degli oggetti in terracotta di manifattura greca), sepolta in quel luogo tre secoli dopo, con la parola terela, cioè 'relativo a colui del prodigio'. L’accettazione e l’interesse degli Etruschi per le malformazioni genetiche è testimoniato, fra l’altro, anche dalle pitture della famosa Tomba François di Vulci dove accanto al titolare del sepolcro, Vel Saties, compare un nano acondroplasico, di nome Arnza, in una scena di divinazione. Ed è l’epoca in cui a Roma, così come in Grecia, simili persone venivano crudelmente soppresse alla nascita.