Le alture nel cuore del Sinai, vere e proprie asperità montane scoscese e frastagliate da dirupi, appaiono come per incanto, interrompendo con la loro massa irregolare la distesa sabbiosa del deserto. Simili imponenti monumenti di roccia, teatro in tempi remoti della marcia di fede di Mosè e degli israeliti in fuga dal faraone, ai nostri giorni fanno da sfondo alla quotidianità di centinaia di tribù beduine; una sorta di habitat coatto, dove chi ha da sempre praticato nomadismo e transumanza è costretto a rifugiarsi, quasi a proteggersi dalla politica aggressiva, per non dire persecutoria del governo egiziano. L’accoglienza è garbata, ma fredda, comprensibilmente diffidente da parte di chi identifica i giornalisti – in particolare quelli legati al regime del presidente Mubarak – quali complici asserviti alle logiche di controllo e repressione messe in atto dal Raìs del Cairo. L’accampamento è essenziale, sembra scientificamente studiato per un’esistenza stentata, ai limiti della sopravvivenza: tende rattoppate e cadenti, insufficienti contro i rigori delle notti d’inverno; servizi igienici sporchi, quasi abbandonati; una cucina da campo – l’unica per tutta la comunità – precaria tanto da sembrare provvisoria; in generale strutture fatiscenti e inadeguate: «Per tacere di scuole e ospedali, lontani più di 100 chilometri dalla nostra comunità. I nostri figli agli esami di licenza media si preparano da autodidatti, seguiti ogni tanto da un istitutore, che garantisce un’assistenza sporadica: viene dal Cairo due, tre volte al mese e si ferma una mezza giornata. Chi sta male, se è grave, deve essere trasportato su piste appena accennate e con mezzi di fortuna a 200 km di distanza, all’ospedale di El Arish, dove spesso non arriva», sottolinea Abdallah Gahama, a capo di tutta la tribù. Intanto bambini vocianti improvvisano una partita di calcio su un campo ricavato tra le buche e nella polvere, con grossi sassi a fungere da pali della porta; tutti di gran lena corrono dietro a un pallone di plastica, mentre le bambine al riparo nelle tende disegnano paesaggi, che nessuna maestra potrà mai vedere. «Sono proprio i nostri figli le prime vittime della politica di isolamento, attuata da Mubarak – aggiunge Gahama –. Una politica che risulta l’esatto contrario di quanto previsto dal piano di recupero delle popolazioni beduine, approvato nel 1995: tutti erano concordi a fornire per gradi una regolare stabilità ai nomadi, costruendo centri abitati con strutture idonee». Ma così non è stato. In seguito all’evolversi delle situazione internazionale e all’emergenza terrorismo – negli ultimi anni tre sanguinosi attentati hanno colpito nel Sinai le località del turismo internazionale (Taba, Dahab e Sharm el Sheik) –, le tribù beduine sono diventate un comodo capro espiatorio e vengono prese di mira in modo sistematico: la polizia egiziana ha effettuato retate sommarie, sulla base di sospetti infondati, e con la tortura ha estorto ai nomadi confessioni di colpe mai commesse; sono centinaia quelli che a tutt’oggi marciscono in prigioni disumane e, secondo i rapporti dell’Associazione dei Diritti dell’Uomo, sono decine i decessi in seguito a percosse con barbari strumenti di morte (si è ricorso persino all’uso dell’alto voltaggio). Così i beduini vivono in continuo stato d’allarme, non trovano lavoro stabile in un mercato professionale già precario come quello egiziano, e ricorrono ad espedienti: «Da pochi anni coltivano e commerciano droghe, come la cannabis, destinata ai facoltosi turisti del Mar Rosso; o addirittura contrabbandano armi, vendendole ai palestinesi di Hamas», fa rilevare Salah el Bolok, ricercatore specializzato nelle società tribali. Alcuni hanno pensato di cambiare aria, dirigendosi in qualche caso in Europa come clandestini (con risultati facilmente immaginabili), più spesso in altre regioni egiziane con più concrete possibilità di lavoro. Così sono nati in anni recenti insediamenti di beduini in riva al Mediterraneo, tra Alessandria e Marsa Matruh, nuova frontiera del turismo d’élite in Egitto e sede delle seconde case della borghesia medioalta del Cairo, sempre più numerosa nel concedersi lunghe vacanze di agio. Qui i nuovi arrivati si offrono come servitù non specializzata, come lavapiatti nei ristoranti e, in qualche caso, intraprendono piccoli commerci di chincaglieria da offrire ai turisti: «Ma viviamo ghettizzati! I turisti ci trattano con disprezzo, ci rinfacciano le nostre origini. E siamo assunti alla stregua di manovalanza stagionale, totalmente precari con retribuzioni minime: in Egitto i sindacati non hanno alcun potere e soprattutto non sono mai stati sensibili alle nostre rivendicazioni!», ricorda Hassan, reduce da due estati a El Dabaa, vicino a El Alamein e non più intenzionato a tornarvi. Intanto il sole fa capolino dietro al Monte di Mosè, dove, secondo la tradizione bizantina, il Profeta ricevette le tavole della Legge da Jahvé. Alti si alzano i canti di tutta la tribù, ritmati da un regolare battito di tamburi: si aprono le danze e giovani gitane, eleganti nelle loro galabeyye variopinte, eseguono movimenti acrobatici, che ricordano un po’ i cerchi concentrici dei ballerini sufi; Hassan mi offre un tè caldo alla menta e un tiro di narghilè con tabacco aromatizzato alla mela, quasi a voler sottolineare in modo concreto il senso di ospitalità beduina; un’ospitalità atavica e immutata nello scorrere dei secoli.