Agorà

Lirica. Mariotti: «Simon Boccanegra è il racconto della solitudine del potere»

Pierachille Dolfini mercoledì 27 novembre 2024

Luca Salsi e Michele Pertusi in “Simon Boccanegra”

«Simon Boccanegra è l’opera della solitudine. La solitudine del potere che logora. Quella di un uomo, un corsaro, per il quale il mare era tutta la sua vita e che voleva solo navigare libero. Ma invece, suo malgrado, si ritrova doge. E deve fare i conti con la solitudine di un leader. Acclamato dal popolo, ma solo. Solo a piangere, a gridare pace mentre i genovesi sono accecati dall’odio e si scagliano uno contro l’altro». Michele Mariotti torna sul capolavoro di Giuseppe Verdi. Lo fa stasera, inaugurando la nuova stagione del Teatro dell’Opera di Roma – sipario alle 18, diretta su Radio3, differita dalle 21.15 su Rai5, repliche in teatro sino al 5 dicembre. «Torno a Simone dopo diciassette anni dall’ultima volta che l’ho affrontato in scena» ricorda il musicista pesarese, classe 1979, direttore musicale dell’opera di Roma. Regia con visioni alla De Chirico di Richard Jones, «visioni metafisiche che raccontano la solitudine, la malinconia, la nostalgia». Luca Salsi è il Doge, Eleonora Buratto Amelia, Stefan Pop Adorno e Michele Pertusi Fiesco. «E la solitudine dell’uomo di potere raccontata da Verdi diventa la solitudine dell’artista. Che è grande. Specie nella sofferenza» dice Mariotti. E la voce si incrina. Perché meno di una settimana fa ha perso suo papà Gianfranco “inventore”, all’inizio degli anni Ottanta del Rossini opera festival di Pesaro.

E come si fa ad andare sul podio con un dolore così grande dentro?

«Chi come noi artisti fa un lavoro pubblico sa che deve mettere da parte spesso il proprio privato. Sono le regole del gioco. Mi sono fatto forza. E ho alzato la bacchetta. Anche perché papà ci ha lasciato a 91 anni dopo una vita lunga e ricca, se ne è andato sereno, nella sua casa. Nella sua vita ha fatto tante cose belle. E ci ha insegnato tanto. Siamo tutti figli di quel periodo di riscoperta di Rossini, ma soprattutto figli di un modo di fare teatro serio, approfondito, appassionato che ora sta scomparendo, oggi si arriva due giorni prima del debutto, si fa una prova, si va in scena e poi via. Papà ci ha insegnato quanto sia importante lavorare sodo e coltivare sempre le proprie passioni. Noi artisti ci portiamo dentro sempre il nostro dolore, che comunque in qualche modo fa diventare più vera l’interpretazione. Ci rende più esperti, più temprati. E fa sì che nella nostra arte portiamo la nostra vita».

C’è anche la sua vita, dunque, in questo Boccanegra?

«Il Doge è il personaggio nel quale mi identifico maggiormente perché, nonostante tutto, affronta la vita. Rappresenta tutti noi: ci suggerisce di prenderci così come siamo, senza vergognarci di ammettere i nostri difetti e le nostre debolezze».

Perché Boccanegra per inaugurare la stagione del Teatro dell’Opera?

«Avendo inteso l’apertura di quest’anno come una doppia inaugurazione, un mese fa il Peter Grimes di Benjamin Britten e ora il Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi. Opere che hanno una grande attinenza, che raccontano la solitudine dell’uomo, appunto. E dove c’è la presenza del mare, terribile, che forgia il carattere dell’uomo. Per Simone il mare è la sua vita e nel mondo ruvido dei marinai non c’è posto per una personalità come Boccanegra, che ha uno spessore spirituale e civile da gigante».

Boccanegra invoca pace, ma resta inascoltato. Un’opera oggi necessaria, in tempo di guerra?

«I grandi capolavori, e Boccanegra lo è, sono sempre necessari, perché non c’è mai un’interpretazione definitiva di pagine che parlano di noi, che ci mettono di fronte ad un universo che abbiamo dentro e che è nostro come lo era di Verdi o del Boccanegra storico. Simone è sempre un’epifania di temi che parlano della nostra vita, la morte, il potere, il rapporto padri-figli. Il duetto con Fiesco è il vero duetto d’amore dell’opera, una ninna nanna, un confronto tra due vecchi che si rappacificano dopo che per una vita si sono fatti la guerra».

È cambiato il suo modo di guardare al Boccanegra negli anni?

«È cambiato perché sono cambiato io e ho trovato in me stesso qualcosa di nuovo. Oggi più che la bellezza di ogni melodia, mi affascina il ritmo teatrale di questa partitura. Un ritmo teatrale, ma anche cinematografico. Ha quadri che sembrano sequenze cinematografiche, come il finale dell’atto primo, michelangiolesco nei colori e nella drammaticità del racconto. Campi lunghi e primi piani, come in quel Sia maledetto! sussurrato dove l’impressione è di una soggettiva, noi che guardiamo la scena con gli occhi di Paolo Albiani».

Boccanegra è la terza delle sue quattro inaugurazioni da direttore musicale del Teatro dell’Opera di Roma.

«Il prossimo anno si chiuderà il ciclo con il Lohengrin di Wagner che avrà la regia di Damiano Michieletto e vedrà Dmitry Korchak nei panni del protagonista. Ma stiamo già lavorando per pianificare gli anni futuri. Mi piacerebbe tenere un piede nel Novecento, magari con Richard Strauss. I diversi repertori sono come abiti che finché non provi non sai se ti stanno bene. Quindi occorre sperimentare. E sono felice di farlo con un’orchestra che si sta rinnovano, diversi musicisti sono arrivati alla pensione e in questi anni abbiamo fatto parecchi concorsi per accogliere nuovi giovani».

Non solo Roma nella sua agenda.

«C’è tanta sinfonica a Napoli, a Colonia, a Stoccarda e ad Amsterdam. Ho un rapporto consolidato con la Staatsoper di Vienna dove ho tutte nuove produzioni. Il prossimo anno a febbraio farò una nuova Norma con la regia di Cyril Teste e con protagonisti Federica Lombardi e Juan Diego Flórez che debutta nel ruolo di Pollione».