Giornata del Ricordo. Foibe, storia di Silvio: dall'esodo alla vita da profugo
Silvio Zulle è il bambino con la cartella, in fuga da Pola assieme ai genitori e al fratellino Giancarlo, appena nato, nella cesta
«Una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono - per superficialità o per calcolo - il dovuto rilievo». Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, domenica al Quirinale, in occasione del Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle Foibe. «Esistono ancora piccole sacche di deprecabile negazionismo militante» ha detto il Capo dello Stato, aggiungendo che «oggi il vero avversario da battere, più forte e più insidioso, è quello dell'indifferenza, del disinteresse, della noncuranza, che si nutrono spesso della mancata conoscenza della storia e dei suoi eventi». E lunedì 10 in Senato si è svolta la commemorazione delle vittime delle foibe: sono intervenuti il premier Conte e i presidenti di Camera Fico e Senato Casellati. Alla "tragedia" delle foibe, ha detto Conte, non è stato dato rilievo "per superficialità o calcolo", sottolineando che "è importante non sottovalutare mai il rischio di nuovi nazionalismi, odi, divisioni, oblii".
Su Pola, coperta da una coltre di neve, soffiava un vento gelido e triste. Da giorni l’unico rumore che riempiva le strade era il rimbombo sinistro dei martelli: prima di abbandonare la città, si inchiodavano le assi per farne bagagli, e per sigillare porte e finestre nell’assurda speranza di proteggere le case. «Era il 2 febbraio del 1947, mamma e papà misero in un cesto mio fratello Giancarlo di soli tre mesi e tutti ci avviammo verso il porto, dove la nave “Toscana” ci attendeva per quello che sarebbe stato il nostro ultimo viaggio da istriani e il primo da profughi ». Silvio Zulle, classe 1940, tiene in mano l’immagine di quel preciso istante: «Questo che stringe la cartella sotto il braccio sono io a sei anni, il mio fratellino maggiore è quello dietro mia mamma, e nella cesta non si vede ma sotto le coperte c’è Giancarlo».
Un’immagine celebre, con il tempo divenuta addirittura la foto simbolo dell’esodo istriano, quando le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale cedettero alle pretese del maresciallo comunista jugoslavo Tito la città di Pola, e 32mila (su 34mila) abitanti presero la via della fuga lasciandosi alle spalle una città fantasma. Dal 1943 in tutta l’Istria, a Fiume e in Dalmazia, la violenza dei partigiani di Tito si era abbattuta sulla popolazione civile senza distinzione. Per essere gettati in foiba o fucilati non occorrevano “colpe”, morirono contadini o maestri, gerarchi fascisti o partigiani antifascisti, operai o studenti, ricchi industriali o bottegai, purché italiani. «Così anche noi alle ore 9 di quel 2 febbraio ci imbarcammo senza nulla in mano, perché ci era vietato portare bagagli sul “Toscana”. Ho pochi ricordi di quel viaggio, ho in mente solo l’atmosfera tragica, direi lugubre, e la tristezza tremenda dei nostri genitori». Ma a parlare per lui c’è quella foto, scattata da un giornalista militare inglese colpito dalla desolazione di ciò che aveva di fronte: un padre con gli occhi bassi, una mamma dallo sguardo rassegnato e i capelli scarmigliati, e tra loro quel bambino che stringe tutto ciò che ha, la sua cartella. Dietro, una “drugarica”, una compagna comunista, sul berretto la stella rossa, lo sguardo che li segue duro: «Ricordo perfettamente che pochi istanti prima lei e un militare titino volevano requisirmela, ma io mi rifiutai, non so come, forse con l’incoscienza dei bambini». Dentro, i sui libri di prima elementare. Il papà non ha nulla in mano, la mamma due borsette da donna. «Dal “Toscana” vedemmo la nostra cara città diventare sempre più piccolina all’orizzonte – racconta Silvio Zulle, oggi nella sua casa di Torino –. Per noi bambini non era drammatico, i nostri genitori fecero di tutto perché non cogliessimo la portata della tragedia. Ma il brutto doveva ancora arrivare...».
Perché Silvio e la sua famiglia, scappati da quella che ancora era Italia e approdati sull’altra sponda italiana, in patria non trovarono accoglienza. «Vivemmo nei campi profughi per ben undici anni. E per undici volte fummo trasferiti in altrettanti campi: il primo a Chiavari, poi a Cinecittà (Roma), da lì a Barletta, Mercatello (Salerno), due volte a Bagnoli, Aversa, Pagani (Salerno), Gaeta, Sant’Antonio (Salerno), infine Capua». Mentre l’Italia, vinta in guerra, si rialzava, ricostruiva, risco- priva l’ebbrezza dell’ottimismo e si avviava al suo boom economico, solo i 350mila giuliano-dalmati sfuggiti alla dittatura di Tito continuavano a vivere l’incubo della sconfitta e ne portavano da soli il peso. Con i loro beni la nazione, che quel conflitto aveva voluto combattere, pagò i suoi debiti di guerra. E a tutt’oggi non ha restituito che il 5% del prestito avuto. «Nei campi profughi estriani ra durissima – prosegue il racconto –, noi esuli finivamo ammassati in caserme dismesse o fabbricati abbandonati, si tiravano delle corde da una parete all’altra, sulle corde si tendevano delle coperte e così si delimitavano le famiglie. A Pola papà era operaio e non eravamo ricchi, ma avevamo la nostra dignità, il nostro bel mare, una città romana millenaria...».
Eppure nei campi profughi – 109 in tutta Italia – la vita riprendeva il suo corso, nonostante tutto. Tra quelle pareti di ruvida lana marrone si nasceva anche, e lì vennero al mondo quattro fratelli di Silvio. «Alla fine eravamo in sette fratellini e bisognava darsi da fare per aiutare papà, perché le bocche da sfamare erano tante... Ma gli i- sono grandi lavoratori e ovunque si sono fatti onore».
A Capua Silvio prende il diploma dell’avviamento industriale, poi, non avendo i mezzi per studiare oltre, cerca un lavoro. All’inizio porta a casa 400 lire a settimana, «50 a me e 350 alla famiglia », ma presto si fa valere e nel 1956 (a 16 anni) guadagna 400 lire al giorno. Ultima tappa della lunga odissea è Torino, dove gli Zulle trovano posto nelle “Casermette”, quartiere popolare tuttora abitato dai discendenti della diaspora giuliano-dalmata. A novembre dello stesso anno Silvio entra nella Scuola specialisti dell’Aeronautica di Caserta, dove il suo spirito ribelle si guadagna subito una punizione, cioè il trasferimento all’ufficio di sorveglianza tecnica presso la Fiat Aviazione di Torino, «paradossalmente a 500 metri da casa nostra!».
Sono anni duri, il padre fatica a trovare un lavoro, ma per ragazzi giovani e volenterosi le occasioni sono tante «e se all’inizio venivamo derisi in quanto profughi, con un dialetto veneto e dei cognomi strani, col tempo ci guadagnammo la stima dei colleghi e dei superiori», fino a che negli anni 70 decide di mettersi in proprio nel campo della carpenteria, copre onestamente tutti i debiti contratti per la nuova attività e allarga la famiglia: «Nel campo di Capua avevo conosciuto una bella ragazza venuta anche lei di Pola, ci siamo sposati e dopo qualche anno sono nati i nostri figli Riccardo e Roberto. In seguito siamo diventati nonni e ora sono già nate tre pronipotine, ma purtroppo mia moglie Klaudia è salita al Cielo nove anni fa».
Klaudia Dvornicic, polesana fuggita con l’esodo, cresciuta in campo profughi pur di restare italiana, porta scritto in quello strano nome tutta la complessità di cosa significhi essere istriano. Negli anni Klaudia e Silvio sono tornati spesso nella loro Pola, «ho ritrovato il mio quartiere, Monvidal, dietro all’Arena romana, ma la mia casa non c’era più, era stata abbattuta e al suo posto c’erano altri edifici. Avevo solo sei anni quando me ne andai, eppure mi porto dentro una nostalgia struggente e, ora che sono in pensione, torno spesso in Istria perché è ancora lì che mi sento a casa». Appena può insieme agli amici del Circolo Istriano di Torino si mette in viaggio sulla sua Vespa speciale e coloratissima, sulla quale ha fatto aerografare da un lato l’Arena di Pola, dall’altra la famosa foto della sua famiglia, scoperta per la prima volta nel 1994 su una rivista di storia: «Rimasi scioccato, eravamo proprio noi! E ricordavo perfettamente quel momento». In seguito in un Film Luce che riprendeva l’arrivo a Venezia degli esuli riconobbe suo padre che scendeva la scaletta del “Toscana”.
Com’è noto soprattutto grazie al musical di Simone Cristicchi, le masserizie degli esuli istriani giacciono tuttora ammassate nel Magazzino 18 al porto di Trieste. Su ogni oggetto furono meticolosamente appuntati i nomi dei proprietari, poi dispersi nel mondo e mai più tornati. Nel mucchio di migliaia di sedie ce n’è una con su scritto Dvornicic, la famiglia di sua moglie. E chissà quanto altro ancora... «Il mio Magazzino 18 personale però è tutto qua – dice mostrando la cesta che contenne suo fratello –, è il nostro capitale. Lo scrigno che racchiude il nostro fiero e appassionato essere istriani di Pola e italiani due volte, la prima per nascita, la seconda per scelta».