Agorà

Intervista. Carrara: «I silenzi della guerra»

ANDREA MILANESI mercoledì 2 marzo 2016
È appena rientrato dalla California, dove a Santa Barbara è stato eseguito il doppio concerto Machpela (con Francesca Dego al violino e Robert De Maine al violoncello), ma ha anche da poco pubblicato un nuovo disco per l’etichetta olandese Brilliant Classics, in cui sono raccolti il suo Magnificat, il brano Vivaldi: in memoriam, la Suite per bicicletta e orchestra e Ondanomala, partitura dedicata alla tragedia del Vajont. Classe 1977, friuliano, Cristian Carrara è sicuramente uno dei compositori più prolifici e originali della sua generazione, il cui talento – cosa assai rara di questi tempi – viene unanimemente riconosciuto sia in patria che all’estero ed emerge in modo evidente anche nel concerto War Silence, opera commissionata dal Festival di Ravello nel 2015 eseguita al Teatro La Fenice di Venezia lunedì, con il pianista Michelangelo Carbonara e l’Orchestra Filarmonica della Fenice diretti da Eduardo Strausser (in replica domani al Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone). Maestro Carrara, il silenzio è un tema che ricorre spesso nella sua attività di compositore; dove lo ha trovato in un’esperienza drammatica come la guerra? «A prima vista la guerra ci appare come qualcosa di assordante, sconvolgente, potentemente rumoroso. Il rumore delle armi, dei crolli, delle urla strazianti. Ma nella guerra, sotto le crepe della distruzione, si nascondono, o si aprono ancora, spazi di silenzio. Il silenzio di chi non ha più nulla, nemmeno lacrime, delle case disabitate, abbandonate, delle strade vuote. Il silenzio di chi si nasconde, della paura. Il silenzio degli abbracci dati di nascosto, degli addii. Tanti sono i silenzi nati dalla guerra. Questo lavoro cerca di metterli in fila, ridando loro vita. In guerra, come le braci sotto la cenere, il silenzio tiene viva l’umanità». La composizione War Silence fa parte di una “trilogia” del dialogo e della pace, che include anche i lavori Machpelae The Waste Land: qual è il comune denominatore che lega queste opere? «Tutti e tre questi lavori sono una riflessione sulla condizione umana. Tutti e tre sono in sostanza dei concerti per strumento solista e orchestra, dove lo strumento solista rappresenta l’uomo inserito nella storia, nel tempo, nel mondo (l’orchestra). War Silence è un concerto per pianoforte e orchestra dedicato alla Prima guerra mondiale e alle mie terre friulane. È l’ostinata ricerca del silenzio tra le voci assordanti in conflitto. Machpela, parola ebraica che indica “la coppia” e il luogo in Hebron delle tombe dei Patriarchi di Israele, è un doppio concerto per violino, violoncello e orchestra. Qui il tema è l’amore, e la sua possibilità di essere eterno, nei sui più vasti significati. Dal dialogo uomo donna, proprio del Cantico dei Cantici, fino al dialogo tra le culture e le religioni. Ecco perché è un concerto con due strumenti solisti. Non vi è dialogo, e nemmeno amore, se non vi è un “tu” che mi sta di fronte e mi interroga. Infine The Waste land, la terra desolata, tratto dall’omonimo poema di Eliot, è un concerto per viola e orchestra. Lo sto scrivendo in queste settimane. Vorrei fosse una riflessione, a partire da Eliot, sulla condizione dell’uomo oggi, legata all’aridità spirituale che la società contemporanea cerca di imporci». In che modo la musica può riflettere su questioni di grande attualità come i conflitti “mondiali” e le grandi migrazioni, sul bisogno di pace e sui grandi temi che riguardano l’umanità? «La musica, come l’arte in generale, nasce perché l’uomo continui a interrogarsi sulle grandi questioni di senso. L’uomo ha bisogno di interrogarsi, di fermarsi per un attimo e guardarsi dentro. Ma è una cosa che fa con fatica, perché per farlo bisogna accettare di mettersi di fronte alle proprie paure. Per questo, pur avendo negli occhi quotidianamente immagini di guerra e di persone sopraffatte dalla violenza, tendiamo a fuggire di fronte alle domande che queste immagini portano con sé. O ad assuefarci. La musica può inchiodare l’uomo davanti al suo mistero. Scriveva il filosofo francese Vladimir Jankélévitch nel suo libro La musica e l’ineffabile: “Dove la parola manca, là comincia la musica; dove le parole si arrestano, là l’uomo non può che cantare”. Non ha mai nascosto di professare i valori profondi della sua fede cristiana; che voce ricoprono nella sua musica?  «Scrivere musica e vivere la mia esperienza di fede sono un tutt’uno. La musica diventa per me un’occasione per ringraziare, per pregare, per accogliere, per domandare. La musica fa parte della mia ricerca spirituale. È per questo che quasi tutto ciò che scrivo ha un’intenzione sacra. Anche se è musica pura, senza parole, desidera dipingere l’atteggiamento di chi vuole essere travolto, stupito, compreso da ciò che da sempre ci precede».