Arte. Canova e Thorvaldsen: si scrive neoclassico, si legge modernità
“Le tre Grazie” di Canova (a sinistra) e di Thorvaldsen (a destra) a confronto nelle Gallerie d’Italia a Milano (Flavio Lo Scalzo)
Stupisce, ma è così: è la prima volta che una mostra mette fianco a fianco Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, vertici non solo della scultura ma dell’intero fenomeno culturale che corre sotto il nome di neoclassicismo. Costantemente accostati nei volumi e nei manuali di storia dell’arte (per quanto con spazi diversi: in Italia sono ben più ampi quelli dedicati a Canova), ebbero entrambi i propri atelier a Roma nei primi due decenni dell’Ottocento, condivisero almeno in parte le committenze, godettero di una fama immensa che portò alla creazione di due musei personali: per Canova, post mortem, la gipsoteca nella nativa Possagno, mentre quello di Thorvaldsen a Copenaghen è il primo mai dedicato a un artista in vita.
L’occasione di questo faccia a faccia è la mostra, a cura di Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca, che ai due dedicano le Gallerie d’Italia a Milano (fino al 15 marzo. Catalogo Gallerie d’Italia - Skira), nuovo ulteriore tassello di un percorso di rilettura e recupero di un secolo complesso e spesso sottovalutato come l’Ottocento.
Sulla traccia narrativa di vite parallele, la mostra ricostruisce l’ambiente, le fortune, le pratiche, i temi (Amore e Psiche, la danza, le Grazie...) comuni ai due innanzitutto perché propri di un’epoca e poi perché campo di una prova a distanza: Thorvaldsen, più giovane di 20 anni, guardò sempre a Canova come esplicito termine di confronto – spesso anche per opposizione – mentre il veneto si limita a esprimere verso il collega giudizi di tipo critico, anche lusinghieri. Il risultato è che i due, portando al trionfo la scultura sulle altre arti, segnano – come dice il sottotitolo della mostra – l’atto di “nascita della scultura moderna”.
Questo può sembrare un controsenso, dato che per entrambi la radice è l’antichità. Non bisogna confondere però l’apparenza del linguaggio dai problemi che l’opera si pone. È difficile trovare un’epoca più “di transizione” del XIX secolo, dove si manifestano ed evolvono con decisione i temi e i nodi problematici della contemporaneità (sociali, politici, religiosi, ermeneutici) mentre gli strumenti linguistici per esprimerli restano ancorati a griglie e registri consolidati. Basti pensare a come questa scultura deve affrontare il modo di rappresentare la storia – e che storia: sono gli anni che seguono la Rivoluzione e vivono in prima persona Napoleone, hegeliana manifestazione dello “spirito del mondo” – al di fuori di se stessa, proiettata nell’eternità del piano ideale, oltre la narrazione a cui costringe l’episodio o il costume. La fonte è la Grecia, ma la scultura che ne sgorga è differente e per motivi diversi. C’è prima di tutto una questione anagrafica.
Canova è uomo dall’educazione pienamente settecentesca, che assorbe il mondo classico prima di tutto attraverso la tradizione veneziana: e giustamente l’amico Leopoldo Cicognara lo colloca al vertice del percorso lunghissimo che copre tutta la storia della scultura italiana. A Roma il giovane Canova si preoccupa di traghettare il mondo tardobarocco verso una dimensione europea, fino a definire un vero e proprio standard per il classicismo internazionale: ma il suo greco, come quello di Winckelmann, resta ellenistico.
Per i contemporanei Canova, il solo paragonabile a Fidia e Michelangelo, fa letteralmente risorgere la scultura dandole nuova vita e gloria eterna: e attraverso di essa porta su un piano mitologico i personaggi del suo tempo (Napoleone-Marte; Paolina-Venere; Lubomirski-Eros...). Tanto epica quanto lirica, la scultura di Canova non fa dell’antico una ripresa meccanica ma una questione di metodo critico, una rilettura dell’oggetto come fonte e via alla vitalità della natura e della storia.
Thorvaldsen si pone il problema del classicismo da una prospettiva tedesca (non importa che sia danese, è una questione quasi “etnica”): e il classicismo tedesco parla “dorico”. Dorici sono i colonnati degli edifici di Schinkel attraverso cui la Prussia costruisce la propria immagine morale di nazione guida capace di riunificare politicamente sotto il suo manto le membra disperse del popolo tedesco. Un rispecchiamento che prosegue nell’“amore per la sapienza”, attraverso una lingua plastica e rigorosa come quella ellenica. Su questo piano le scelte e il rigore di Thorvaldsen (si pensi alla sua capacità di ricostruire nel Giasone col vello d’oro le proporzioni del canone policleteo dalle molte derivazioni del Doriforo in un’epoca in cui la statua non era ancora stata identificata) vanno inseriti in un bacino culturale in cui parte notevole ha la forgiatura della scienza filologica, che sarebbe sfociata nel metodo di Lachmann.
Scrive Grandesso in catalogo: «Thorvaldsen doveva essere riconosciuto come il campione nordico del classicismo... Se ne era impadronito al massimo grado, risalendo alle più pure fonti dell’arte greca. Attraverso una tabula rasa della tradizione moderna così presente a Canova, Thorvaldsen rappresentava la riforma e la possibilità di una palingenesi dell’intera arte nordica e tedesca, che si sarebbe rigenerata come erede della grecità più incorrotta».
Il punto è questo: Canova, per il quale il classico è lingua naturale, appare come sintesi e culmine di un percorso; Thorvaldsen, nell’astrazione di una lingua fatta propria con un atto intellettuale, come “inizio”. Il minimalismo del Novecento nordico (tedesco e scandinavo) è la versione distillata del distacco, dell’equilibrata solidità, della razionale e serena purezza dei volumi della scultura di Thorvaldsen tanto quanto dell’architettura di Schinkel.
Ma nella sintonia tra il classicismo aulico e austero di Thorvaldsen con la questione della “superiorità” del Volk tedesco (il riferimento alla Grecia più arcaica e pura come immagine guida nella costruzione di una nazione consente di aggirare l’eredità latina) trova anche genesi una retorica di forme che sarà amata dal Sonderweg (l’“eccezionalismo” prussiano) fino al totalitarismo nazista, il quale non a caso non conosce la fase rivoluzionaria delle avanguardie: tra questa scultura e le immagini degli atleti di Olympia, il film di Leni Riefenstahl, c’è una discendenza diretta. Il totalitarismo italiano di certo non potrà pescare dalle “mollezze” e dalla levità canoviane: molto più efficace la rude virilità di Roma e dell’arte dei popoli italici.
Canova e Thorvaldsen si muovono davvero su binari paralleli. Il confronto in mostra tra la Ebe canoviana e quella del danese è decisivo. La prima è un’apparizione, una polena che avanza danzando in volo, i cui abiti che aderiscono al corpo manifestandolo in trasparenza hanno la stessa densità della nuvola. La seconda è una figura immobile, casta, inattingibile: ma molto più solida della collega italiana.
Eppure in Thorvaldsen sembra esserci una sorta di compressione, un pulsare sotto la superficie. Lo si nota nei suoi ritratti, dove Thorvaldsen nasconde la modernità sottopelle all’antico, come ad esempio in quello di Vincenzo Camuccini, apparentemente all’antica ma efficacissimo nella resa psicologica con quello sguardo che taglia obliquo, i capelli arruffati e persino il dettaglio alla moda delle basette sul viso glabro e affilato. O come nel ritratto di Horace Vernet, dove la pelle appare tesa sopra ossa e muscoli. È un guizzo che i ritratti di Canova nella pur strepitosa resa naturalistica (memorabile quello del compositore Domenico Cimarosa) non sembrano avere.
O ancora nei gruppi delle Tre Grazie attorno a cui tutta la mostra sembra orbitare. Il capolavoro supremo di Canova ha eleganza e ricchezza di affetti: ma ciò che concatena le tre figure in un fluido infinito abbraccio circolare è un sentimento agapico. Thorvaldsen sceglie invece una forma salda, simmetrica: l’abbraccio si chiude sulla figura centrale, come le ali di un trittico. Ma i gesti (il dito, la mano) con cui le giovani ai lati ne dividono il moto, creando vettori di apertura della forma, suggeriscono una dimensione narrativa assente nel gruppo canoviano. A muoverle è indubitabilmente Eros, che suona la cetra ai loro piedi.