Agorà

Anticipazione. Arte e passione, la bellezza secondo D'Avenia

Alessandro D'Avenia sabato 28 ottobre 2017

Nadežda, il tuo nome vuol dire speranza. La speranza di un segnalibro, la misura di ciò che non possiamo perdere, perché ne andrebbe di noi stessi. Ti ho vista due volte, Nadežda Jakovlevna, quando controllavo gli intellettuali per conto del ministero della Cultura. Eri nella penombra in un’epoca di lupi. La prima volta fu nel 1919 in un locale in cui parlavamo di poesia, di libri, di politica e di rivoluzione. Tu avevi i capelli che si accendevano agli incerti bagliori delle lampade e i tuoi occhi puliti sembravano lavanda in un mazzo di calle, perché avevi la pelle chiara in quella notte di ferro. Io ti guardavo, cercando il tuo consenso, ma tu eri tutta concentrata su di lui. Lo stavi già aspettando. Io mi chiedevo cosa ci trovassi in uno che parlava così lentamente, aveva le spalle incurvate e le gambe troppo lunghe. Era troppo magro per la tua bellezza. Troppo serio per i tuoi occhi incantati. Ma tu con quegli occhi seguivi le sue labbra, era il segno che non c’erano speranze. Lo so che quando una donna guarda le mani e le labbra di un uomo quell’uomo è già stato scelto. E tu gli guardavi le labbra, da cui uscivano parole gravi, simili ai metalli nelle miniere. Rilucevano nella tenebra e veniva subito voglia di incastonarle in un gioiello, tanto erano pure e grezze al tempo stesso, originarie e originali. Contenevano tutto lo spessore del mondo, fino al centro della terra e ritorno.

Per questo dovevano essere conservate e tu avevi già deciso di incaricarti di quel compito. Per questo eri così attenta a intercettare le sue parole in mezzo a tutti quei suoni virili e notturni e riuscivi già a distinguerle perfettamente, come se avessi affinato quell’abilità con una lunga pratica. A qualcuno che ti suggeriva di startene al sicuro, tu rispondesti che non volevi stare al sicuro ma volevi stare con lui, e così nel 1921 eravate marito e moglie e un anno dopo Mosca vi spalancò le braccia. Perciò la seconda volta che ti ho vista eri sua moglie, e io lo tenevo d’occhio perché sapevo che credeva più nella poesia che nel regime, ed era forse il più bravo, anche se scriveva versi falsi, o così almeno credevo a quel tempo. Eravamo in un teatro, per una lettura di poesia.

C’erano tutti i migliori. Non poteva mancare l’uomo dai versi di pietra e di cristallo, di carbone e diamante, di metallo e di terra. C’erano già troppi occhi offuscati dalla menzogna e dall’ideologia, e la poesia faticava a farsi largo in quel silenzio falso. Tu eri lì a guardarlo e ad ascoltarlo, il tuo corpo si sporse in avanti quando entrò sulla scena pronto a leggere la poesia che aveva scelto. Nessuno sapeva quale, neanche tu. Per questo eri così curiosa. Aveva scelto una poesia su Dio, forse quella contenuta in Tristia, che dice: «Gesù!» – dissi per sbaglio, e nemmeno / pensai che a dirlo erano le mie labbra. / Il nome divino, come un grande / uccello s’è involato dal mio petto. Mentre lo ascoltavi i tuoi occhi si velarono di lacrime, quella poesia così bella suonava come un’autocondanna a morte. Almeno tu e io lo capimmo subito, anche se da prospettive opposte. Alla fine della serata glielo hai chiesto: «Osip, sai cosa ti faranno? Fra tante perché proprio quella?». Lui ti ha guardato con lo stupore del bambino che non capisce il mondo perché sa solo giocare. E ti ha risposto: «Perché è molto bella ».

Sapeva che la caduta della bellezza era l’inizio di ogni abiezione, imparava l’italiano per scoprire Dante nella sua lingua, e aveva letto nell’ultimo canto dell’Inferno che proprio perché Lucifero era la più bella delle creature di Dio, la sua bruttezza era la fonte di tutto il male dell’universo. Solo i poeti sanno che la bellezza salva il mondo dalla disperazione e quindi dalla morte. Ce n’era già abbastanza per arrestarlo, chi parla di Dio è incompatibile con la grande cavalcata della Storia, si ostina ad andare a piedi. Mentre tornavate a casa tu non hai aggiunto altro, sei rimasta in cucina quando lui era già andato a letto e l’hai imparata a memoria, quella poesia, perché era proprio bella e sarebbe stato necessario ricordarla per due motivi: per rimanere buoni, e per quando avrebbero bruciato le sue carte e le sue labbra. Da quella sera non hai più smesso. Come un conto alla rovescia accadde inesorabile ciò che doveva accadere e la causa fui io.

Nei regimi succede sempre questo alla bellezza: se la lasci libera li sgretola in un attimo, perché sempre dietro la bellezza vengono verità e speranza. E i regimi perciò la temono e la frantumano. Ebbe l’ardire di canzonare il regime nei suoi versi, non serviva altro, e nel 1938 Stalin decise di farla finita. Prendemmo lui, non le sue carte. Con sé portò solo la Divina commedia, che stava leggendo da autodidatta. Gli piaceva l’italiano e aveva capito che dopo e oltre Dante era rimasto poco da dire. Ficcasti quelle carte in un baule, che portavi con te a ogni trasloco, anche quando il freddo avrebbe richiesto di bruciarle per scaldarti un po’ il corpo. E le imparavi a memoria, prima che qualcun altro le bruciasse. Scandendo quei versi, soprattutto la notte, ti univi a lui e ne proteggevi l’essenza di uomo: la sua impalcatura di ossa, la sua struttura di carne, il suo cuore, il suo cervello e l’indistruttibile spirito che era rimasto incastrato felicemente in quei versi.

Le tue lettere non avevano risposta. Chissà dov’era, chissà se aveva freddo, chissà se aveva una matita per scrivere, chissà se aveva ancora il suo Dante per non morire. Poi presero anche le sue carte e le bruciarono, perché nulla rimanesse di lui. Le tue lettere cominciarono a tornare indietro. Fu allora che lo facesti risorgere ripetendo ogni notte le sue poesie, per anni, per paura di dimenticarle. Non ci fu il tempo per piangerlo, perché era troppo il lavoro da fare per tenerlo in vita, sapergli l’anima e il corpo a memoria. E adesso io dalla stanza accanto alla tua, quella da cui spio i tuoi movimenti per scovare altri nemici, nella quiete della notte, quando la vita degli uomini è finalmente disposta a tradirsi, sento la tua voce di speranza. Pronunci quei versi con le tue labbra ancora belle anche se invecchiate per la stanchezza e il freddo, per un amore troppo breve ma così profondo da riaffiorare ancora oggi sulla tua bocca, come i fiumi sotterranei che si fanno strada nella roccia per dissetare uomini a chilometri e chilometri di distanza dalla loro origine. Per questo ho deciso di tacere e di imparare anche io quei versi. Ho deciso di tradire il regime e non te. Ho letto tutta la vostra corrispondenza e ne conserverò il segreto per voi due. Piansi quando lessi quello che gli scrivevi: «Ora non guardo nemmeno più il cielo. A chi mostrare le nuvole che scopro? [...] Ricordi com’è buono il pane quando compare per un miracolo e lo si mangia in due?».

Con la tua voce, con le tue labbra, lui era al sicuro. E quando leggo i suoi versi ancora oggi è la tua voce che sento, io che di lui non so neanche quale sia l’ultima cosa che ha visto (la neve, un cielo azzurro o la luna?) e che terribili torture gli sia costata, anche per colpa mia, la sua bella poesia su Dio. Nadežda, io vorrei che una donna mi amasse con la tua stessa voce, tanto da farmi esistere con quella, tanto da farmi vivere per sempre. Imparandomi a memoria. Parola per parola. Semplicemente per lo stesso motivo per cui lui morì: per la bellezza. A quel Dio a cui dedicò la sua condanna io chiedo pietà e misericordia per un uomo che non si è dimenticato di lui in tempi oscuri, per una donna che non si è dimenticata di lui in tempi disperati. Sappi, Nadežda, che gli hai salvato la vita. Anche quando noi lo abbiamo distrutto, sapeva che tu lo stavi salvando, anche dalla sua prigionia: « Mi sei diventata così vicina che parlo tutto il tempo con te, ti chiamo, mi lamento con te » . Eppure tu a chi sei stata fedele? A lui o alla sua Musa? E c’è differenza? Il tuo amore salvò ciò che lui aveva ed era. E amare non è forse essere custodi del destino di un altro? Un regime non vale un amore come il vostro. È proprio la Storia che noi avevamo trasformato in una religione ad avervi dato ragione, Nadežda.