Sopravvissuto. La Shoah di Nico Kamp: «La vita è la mia rivincita»
«Ormai noi testimoni siamo come gli ultimi dei mohicani ». Nico Kamp lo dice senza rassegnazione, con la pazienza di chi ha imparato presto a essere tenace. Nel 1942, all’età di cinque anni, si è trovato ad affrontare la persecuzione nazista insieme col fratello Rolf, di poco più grande. «Di solito, almeno nei primi tempi, lui parlava e io mi limitavo a confermare – racconta –. Passavamo da una fattoria all’altra, da una famiglia di zii all’altra. Non erano i nostri zii, è chiaro. Lo capivo perfino io, che ero così piccolo». La sua è una dolorosa storia personale che si intreccia con la tragedia collettiva della Shoah e, in particolare, con la vicenda di Anne Frank. Anche per questo oggi alle 18.30 Nico Kamp - che ha vissuto a lungo in Italia, dove è stato console generale d’Olanda - sarebbe dovuto essere a Milano, presso la libreria Feltrinelli Duomo, per presentare insieme con Aart Heering l’edizione del Diario di Anne Frank curata da Matteo Corradini per la Biblioteca Universale Rizzoli (prefazione di Sami Modiano, traduzione di Dafne Fiano, pagine 544, euro 10).
Il libro, celeberrimo, viene proposto in una versione molto innovativa, basata sul raffronto continuo tra la prima stesura, corrispondente al diario vero e proprio, e la parziale rielaborazione avviata dalla stessa Anne nell’alloggio segreto di Amsterdam, in vista di una pubblicazione dopo la guerra. Il volume uscì effettivamente nel 1947, postumo, nel testo stabilito da Otto Frank, il padre di Anne. In seguito a una delazione, il 4 agosto 1944 i Frank erano stati scoperti, arrestati dalla Gestapo e deportati ad Auschwitz. Il carro bestiame su cui viaggiavano era lo stesso che trasportava Fritz e Inge Kamp. Ebrei tedeschi come i Frank, anche i Kamp avevano lasciato la Germania nazista per cercare rifugio in Olanda. Nel 1940, quando la Wehrmacht aveva invaso i Paesi Bassi, i genitori avevano deciso di separarsi da Rolf e Nico. I bambini, da lì in poi, si sarebbero nascosti in campagna, nelle diverse fattorie dei famosi zii.
«Dovevamo dire che il papà era lontano per lavoro e che la mamma non stava bene - spiega Kamp - ma in realtà non sapevamo dove fossero. Ci mancavano molto». Erano nel lager, appunto. Per qualche tempo Anne Frank dormì sul tavolaccio sopra quello di Inge Kamp. «Ma la ragazza, era molto debole e fu trasferita presto nella baracca dei malati insieme con la sorella Margot – commenta Nico –. Non sono in grado di confermare se da lì davvero passarono a Bergen-Belsen, come si sostiene. Di sicuro so soltanto che a Bergen-Belsen c’erano i miei nonni».
Anche se vista con gli occhi di un bambino, e da un punto di vista relativamente marginale come la campagna olandese, la Shoah non perde nulla della sua spietatezza. «Non riuscivo a capire, ma capivo di essere diverso dagli altri» ammette Kamp. «Da un momento all’altro mi avevano imposto di non usare più il mio nome e questo è terribile: se si toglie il nome a una persona, le si toglie tutto, tanto più se si tratta di un bambino. Ma dopo un po’ ci si abitua, come noi ci siamo abituati a cambiare fattoria, a pregare come le famiglie luterane che ci ospitavano, ad ascoltare le loro lunghe letture della Bibbia. Più tardi ho scoperto che, attraverso la Resistenza, mio padre mandava loro del denaro in cambio della protezione nei nostri confronti, ma questo non cambia la mia gratitudine. Quei contadini rischiavano molto, in una situazione di incertezza totale. E hanno salvato la vita mia e di mio fratello».
Il 13 giugno 1945, a poche settimane dalla fine della guerra, la Croce Rossa permette a Nico e Rolf di riabbracciare la madre. «Lei sapeva già che nostro padre era morto – ricorda Kamp – ma non ha voluto dircelo subito. Era magrissima, con la testa ancora rasata e coperta da uno scialle. Proprio come le collaborazioniste che, dopo la caduta del Terzo Reich, erano state umiliate pubblicamente. C’era una differenza, però, ed era il numero che nostra madre portava tatuato sull’avambraccio. Lo mostrava nel tentativo di far comprendere che lei non era stata l’amante di un nazista, ma una vittima, una deportata. Veniva da Auschwitz, ripeteva, ma all’epoca il nome non significava nulla, nessuno voleva ascoltarla, nessuno era disposto a credere che i racconti di quella donna e degli altri sopravvissuti fossero autentici. Erano storie troppo atroci, tanto da risultare incredibili. E poi i giornali non le riportavano, le foto e i filmati realizzati nei campi di sterminio dall’esercito statunitense ancora non circolavano. Per molto tempo mia madre è rimasta in silenzio. Ogni sera, prima di andare a dormire, metteva sul comodino un pezzo di pane e una piccola tazza di latte. Al mattino erano spariti, perché anche di notte la fame patita nel lager non la abbandonava. Poco, ma doveva mangiare».
Nel 2007 I ricordi di Inge e dei suoi figli Rolf e Nico Kamp sono diventati un libro edito da Proedi. In quelle pagine, curate da Maria Pia Bernicchia, fa la sua apparizione anche Anne Frank. «Ma mia madre conosceva meglio la madre, Edith, di cui era quasi coetanea – precisa Nico Kamp –. Ad Auschwitz come altrove, i nazisti seguivano una tecnica di disumanizzazione molto precisa. I nuclei familiari arrivavano uniti, poi gli uomini venivano separati dalle donne, dopo di che i padri erano allontanati dai figli e le figlie dalle madri. Nel frattempo anche loro, tutti, avevano perduto il proprio nome. Erano diventati numeri, esseri denutriti costretti a sobbarcarsi fatiche bestiali per portare a termine lavori spesso inutili. È questo meccanismo a rendere unica la Shoah, rendendo impossibile il paragone con altre forme di persecuzione. A loro volta tremende, non discuto, ma pur sempre diverse da questo orrore che neppure Anne Frank ha potuto descrivere. Il Diario ci mostra quello che ha preceduto Auschwitz, non Auschwitz. Parlare di che cosa è accaduto nei lager è compito nostro, degli ultimi sopravvissuti. Non solo per noi stessi, ma anche e specialmente per chi verrà dopo di noi». Una testimonianza, certo. Ma per Nico Kamp è anche qualcosa di più. «Sono nonno di due nipoti, due ragazzi belli e sani – afferma orgoglioso –. Loro sono la mia vendetta, sono la dimostrazione che la vita vince sempre e che non possiamo mai perdere la speranza».