Alla vigilia della seconda guerra mondiale, imitare Hitler stava diventando sempre più di moda in Europa centrale. Ma l’Ungheria, cinta della gloria della Corona di Santo Stefano, era profondamente cattolica. Avrebbe finito per imitare il nazismo? Il Führer forse ne dubitava, dato che aveva persino proibito ai cattolici tedeschi di partecipare al Congresso eucaristico internazionale di Budapest del maggio 1938, al quale sarebbe intervenuto lo stesso Segretario di Stato di Sua Santità, il cardinale Eugenio Pacelli, futuro Pio XII. La ragione del veto hitleriano è svelata da un dispaccio conservato nell’Archivio Segreto Vaticano: il «desiderio di non esporre le coscienze dei partecipanti tedeschi a sentire cose meno favorevoli al nazionalsocialismo», e di non disperdere valuta pregiata. Il Führer auspicava che l’Ungheria seguisse la Germania anche nella politica antisemita. Ma il Vaticano e la nunziatura apostolica a Budapest potevano essere un ostacolo a tutto ciò. Scoppiata la seconda guerra mondiale, quest’impressione si sarebbe ulteriormente rafforzata. Le carte della Nunziatura in Ungheria sono ancora chiuse alla consultazione per il periodo bellico. Ma lo studioso può ricostruire le drammatiche vicende degli ebrei ungheresi grazie alla collana degli
Actes et Documents du Saint-Siège e all’apporto di altri documenti. Nuove indicazioni si ricavano anche da un archivio privato: quello di monsignor Gennaro Verolino, diplomatico vaticano di lungo corso, originario di Acerra, chiamato a essere il braccio destro del nunzio apostolico a Budapest, monsignor Rotta, proprio negli anni più bui della persecuzione antiebraica. Quanto sia importante la figura di Verolino lo dice il fatto che fu insignito nel 2004 del
Premio Per Anger per meriti umanitari, e successivamente anche del titolo di "Giusto tra le Nazioni" da Yad Vashem. Dalle sue carte, messeci cortesemente a disposizione dalla famiglia, è possibile non solo dare giusto risalto alla sua figura, ma anche avere una visione più chiara dell’azione vaticana contro le leggi razziali antiebraiche, varate in diverse tappe dal regime ungherese. Ed emerge come la Santa Sede abbia cercato di fare sempre i passi più appropriati, «possibili e opportuni», per il salvataggio di vite umane. «Si parla molto della rappresentanza diplomatica della Santa Sede di Budapest, della nunziatura apostolica il cui capo dal principio del 1930 era il nunzio Angelo Rotta, ambasciatore del Papa – scrive monsignor Verolino in suo importante promemoria –. Il suo nome era in quel tempo conosciuto da tutti gli ungheresi lettori di giornali, la sua firma divenne conosciuta nel 1944: firmò migliaia e migliaia [sottolineato nel testo] di documenti che appoggiandosi all’autorità del Vaticano cercarono di difendere i perseguitati soprattutto ebrei e quelli di origine ebraica destinati alla morte di gas o alla fucilazione nel Danubio». La salvezza degli ebrei fu per Rotta e per Verolino una vera corsa contro il tempo, che li vide passarsi di continuo il testimone. Dalle carte emerge che la Nunziatura apostolica presagiva ciò che Hitler avrebbe fatto: «Quando il 19 marzo 1944 Hitler ordinò l’invasione dell’Ungheria, noi alla Nunziatura non ne fummo del tutto sorpresi. Sapevamo che Hitler aveva ordinato a Horthy di andare a Salisburgo e avevamo paura delle conseguenze. Sapevamo che da parte ungherese erano fatti certi passi per mettersi in contatto con i poteri anglosassoni, ma anche i tedeschi ne vennero informati; si poteva pensare che Hitler avesse voluto esser sicuro della "fedeltà" dell’Ungheria». Si trattava di salvare vite umane e di farlo in fretta, specialmente dopo l’avvento delle "Croci frecciate", il partito ungherese emulo di quello nazista. A poco servirono proteste diplomatiche e passi similari. I diplomatici papali (anche con l’aiuto di altri colleghi stranieri) escogitarono allora soluzioni alternative: come produrre dei certificati individuali di protezione. Chiunque ne facesse richiesta, li otteneva. «Dei detti certificati – narra Verolino – la Nunziatura ne rilasciò in un mese oltre quindicimila», per strappare a morte certa gli ebrei ungheresi: battezzati e no, dato che «la legge considerava solo l’origine razziale», e dunque un ebreo non si salvava in virtù del battesimo. Qualcuno fu ugualmente catturato, «ma la Nunziatura mandava ai posti di frontiera persone di sua fiducia (con autocarri) e quasi sempre riuscì a riportarli a Budapest». La nunziatura, inoltre, «accolse nella sua casa quanti questa poteva contenerne», e pose «sotto la sua protezione» venticinque edifici sparsi per Budapest, che evidentemente ospitavano rifugiati, «sui quali issò la bandiera pontificia». Quanto quest’opera si sia rivelata utile a salvare vite innocenti lo scrisse a monsignor Verolino, il 28 aprile 2002, Mordechai Paldiel dallo Yad Vashem: «Stia sicuro – si legge nella lettera inviata da Gerusalemme e conservata nell’archivio del prelato – che la sua opera sarà da noi serbata in cuore e sarà condivisa dagli studiosi dell’Olocausto, a beneficio delle future generazioni». Appena due anni dopo, monsignor Verolino fu insignito dello stesso titolo ricevuto dal suo diretto superiore a Budapest, monsignor Rotta: quello di "Giusto tra le Nazioni".