Agorà

Storia. Shoah, i due volti del Caudillo

Monica Zornetta sabato 6 giugno 2015
«Schizofrenico». All’alba degli anni Quaranta Eberhard von Thadden, responsabile degli Affari ebraici presso il ministero degli Esteri del Terzo Reich, avrebbe definito così l’atteggiamento del Generalísimo Francisco Franco dinnanzi al problema ebraico. E il perché sta in queste sue parole: «Mi risulta incomprensibile la ragione per la quale il governo di Spagna da un lato riconosce come spagnoli i suoi ebrei e dall’altro dichiara che questi spagnoli non devono entrare in Spagna». Il dittatore galiziano attuò in effetti una politica «delle convenienze», a volte sensibile al problema judío – tanto da “meritare”, negli anni Cinquanta, i ringraziamenti dell’allora ministro degli Esteri israeliano Golda Meir –, a volte del tutto indifferente. Nemmeno quando la Germania concedeva ai propri alleati, Spagna compresa, di far rimpatriare entro marzo ’43 quei sudditi israeliti che risiedevano nei territori occupati (soprattutto in Francia e in Grecia), pena la deportazione nei campi di sterminio, Franco dimostrava coerenza. E ciò malgrado i sentimenti niente affatto ostili che nutriva verso gli ebrei sefarditi, quel ceppo che abitò la penisola iberica fino alla cacciata da parte dei re cattolici Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, nel 1492, e che si disperse «verso i quattro angoli della terra», come scrisse meno di un secolo più tardi il medico sefardí Joseph ha-Kohen. Il Caudillo non diede subito ascolto alle sollecitazioni del suo ambasciatore a Berlino, Gines Vidal y Saura, né a quelle del console generale a Parigi, Bernardo Rolland de Miota, e quando si decise a rilasciare l’autorizzazione, non tutti  poterono usufruirne. Solo esigui gruppi di sefarditi fecero ritorno nell’ex neutrale, e in quel momento non belligerante, Spagna. Ma a nessuno venne data la possibilità di fermarsi. Diversamente dal Führer, il cattolicissimo Franco non reputava gli ebrei l’incarnazione del male assoluto. Egli temeva e combatteva invece il complotto, il contubernio, tra i repubblicani di sinistra, i comunisti e i massoni, sebbene nella sua propaganda fossero ossessivi i richiami alla «cospirazione giudeo-massonico-comunista internazionale» come causa dei mali del Paese. Sulle ambiguità della condotta franchista verso il “problema ebraico”, la giornalista della Television Espanola, Yolanda Villaluenga, ha costruito un documentario d’investigazione intitolato ¿Documentos robados? Franco y el Holocausto, presentato l’anno scorso al Sephardic Jewish Film Festival di New York. Il punto di partenza è stato il ritrovamento, al ministero degli Esteri spagnolo, di un dossier contenente l’annotazione di tutti movimenti compiuti dagli ebrei nella penisola iberica dal 1939 al 1945. Un fascicolo che non andava assolutamente divulgato, come una misteriosa mano si era premurata di scrivere: probabilmente la stessa mano che aveva fatto sparire alcune delle pagine più compromettenti, quelle capaci di rivelare come Franco avesse realmente trattato la questione ebraica. Grazie ai contributi degli storici José Antonio Lisbona e Josep Calvet, dello scrittore Jacob Israel Garzón, del direttore del centro Casa Sefarad-Israel, Miguel de Lucas, e di testimoni diretti dei fatti narrati, si scopre che quello retto dal dittatore galiziano è stato un sistema cangiante, che mutava a seconda delle convenienze, anche economiche, e di chi fossero i vincitori della guerra. Una volta l’Asse, una volta gli Alleati. Negli anni in cui la Germania era impegnata a perfezionare il piano di eliminazione degli ebrei dall’Europa, il governo franchista concesse agli ebrei sefarditi di nazionalità spagnola il necessario per espatriare, soprattutto verso le Americhe, partendo dal Portogallo: passaporto, visto di entrata e di uscita, biglietto di imbarco. Talvolta anche denaro. Come risulta dagli atti custoditi nell’archivio municipale di Sort, paesino catalano vicino al confine francese, furono trentasettemila quelli che arrivarono in Spagna dal ’39 al ’44, valicando a piedi i Pirenei con il rischio di essere catturati.Quando la soluzione finale himmleriana era ormai entrata nel vivo, Madrid cambiò rotta: serrò le frontiere e diede inizio a una grande caccia agli ebrei. Inoltre, stando a un documento scovato nel 2010 all’Archivio storico nazionale da Jacob Israel Garzón, Franco, per suggellare ancor più i rapporti con il Reich, avrebbe emanato l’ordine a tutti i governatori civili delle province di redigere puntigliose liste dei seimila residenti «israeliti nazionali o stranieri» da destinare ai nazisti. Nessuna legge razziale o discriminatoria era in vigore, tuttavia sgradevoli effluvi antisemiti avevano da un po’ cominciato ad ammorbarne l’aria, sotto l’influenza della Gestapo. A Barcellona alcuni rappresentanti della comunità ebraica finirono in carcere.Dopo la disfatta tedesca a Stalingrado e l’esito della campagna del Nordafrica, i tempi erano ormai maturi, per la Spagna, per un altro cambio di rotta. Cominciò a guardare con favore agli Alleati, i futuri vincitori della guerra. Poco alla volta, dunque, il Generalísimo mutò di nuovo atteggiamento. Non ovunque, però, e non per tutti. Le comunità di sefarditi che risiedevano in Ungheria e in Grecia seguitavano a vivere nel terrore; come in Francia, anche qui furono il coraggio, l’astuzia e gli incredibili espedienti adottati da una parte del corpo diplomatico spagnolo, in particolare dal console ad Atene, Sebastián de Romero Radigales, e dall’ambasciatore a Budapest, Ángel Sanz Briz (di cui l’italiano Giorgio Perlasca fu collaboratore), a proteggere la vita di molti ebrei. I tre sono stati riconosciuti Giusti fra le nazioni. Oggi si sa che il governo franchista, prima dell’isolamento cui venne sottoposta la Spagna dal 1945 e grazie alla disinformazione e alla segretezza di cui si circondò, manipolò e attribuì a sé le imprese compiute dai singoli diplomatici, tentò – spesso riuscendoci – di cancellare le tracce delle malefatte e creò il mito del Caudillo “Salvatore degli ebrei”. Un mito che sembra essere inossidabile tanto da aver fatto meritare al suo regime, in tempi recenti, le parole di elogio del presidente del Congresso mondiale ebraico, Israel Singer: «Non voglio difendere Franco, ma nella Seconda guerra mondiale molti ebrei si salvarono in Spagna: ignorare questo significa ignorare la storia».