Di solito si scambiano lo sguardo due persone o due interlocutori impegnati in una discussione. Nella storia, anche la cultura araba e quella occidentale, se è lecito parlarne in termini così generali, si sono sempre scambiate uno sguardo, ma ciò è avvenuto in maniera molto diversa e, come sappiamo, non sempre pacifica. Tale scambio di sguardi rende altresì evidente come le due culture abbiano avuto una lunga storia comune e si siano incontrate stimolandosi o sfidandosi a vicenda. Per questo è legittimo gettare uno sguardo anche sulla loro storia mediterranea, rinunciando di buon grado alle controversie di cui oggi straparlano i giornali. Persino in ambito religioso, dove un fatale anacronismo intacca il concetto «illuminato» di religione proprio dell’Occidente, appaiono evidenti le affinità, che è facile identificare sotto l’etichetta di «monoteismo». È sufficiente evocare l’Andalusia per richiamare alla memoria i tempi felici durante i quali le culture araba, ebraica e cristiana sono vissute insieme. D’altra parte anche un’euforia eccessiva può celare le insidie della storia ipersemplificata. Negli accesi dibattiti dei nostri giorni il tema dell’islam è diventato attuale, ma proprio in questa attualità è insito il rischio di fallire il bersaglio se non addirittura di falsare il tema dal punto di vista storico. I vari tentativi di argomentare in modo politicamente corretto, cercando di rivendicare la propria ragione o di confutarsi a vicenda, sono destinati a fallire, dal momento che non danno spazio sufficiente ad altre posizioni o non riescono a volgere lo sguardo nello spazio profondo della storia comune. Nel
deep time – quale lo definisce, con metafora geologica, Siegfried Zielinsky nella sua archeologia dei media – tornano alla luce tracciati di confine e punti di convergenza che gli odierni dibattiti hanno dimenticato o rimosso. In un clima tanto segnato dalla reciproca diffidenza spesso riesce quasi impossibile trovare ascolto. E d’altra parte non ha nemmeno senso unirsi al coro di chi prende come slogan l’«alleanza tra le culture» ed evoca soltanto unità e affinità con il mondo islamico. È indispensabile fare un passo oltre, per cogliere le distinzioni di cui ogni cultura ha necessariamente bisogno per esprimersi e per intavolare con le altre un dialogo nel quale le conoscenze siano più importanti delle asserzioni. Di recente il filosofo Régis Debray ha definito il dialogo tra le culture un «mito contemporaneo». Mentre scienza e tecnica costruiscono un mondo comune, «la cultura è il luogo naturale del confronto, poiché essa forgia l’identità e presuppone un minimo di dissenso». L’autore cita Claude Lévi-Strauss, là dove questi osserva che «la civiltà reca in sé la coesistenza delle culture più diverse e vive proprio in virtù di tale coesistenza». Certo, Debray giudica oggi più che mai necessario spalancare le porte e abbattere i muri costruiti accumulando pregiudizi. Nondimeno, l’idea di una perfetta similarità non dovrebbe costituire oggetto di controversia, poiché soltanto la diversità ci può tenere al riparo da ogni sorta di fraintendimento. Da parte occidentale, con un atteggiamento sempre più difensivo, nasce la paura di perdere l’immagine di sé quale cultura universale e di essere contaminati da altre culture. Sul versante opposto, invece, ci si sente compromessi dal confronto culturale, nel timore di essere destinati a perdere. E si obietta, contro il termine nevralgico «islamico», che neppure l’Occidente potrebbe legittimamente parlare di cultura o scienza cristiana. Oggi persino la questione dell’immagine si espone facilmente all’accusa di eurocentrismo, anche qualora si abbia cura di differenziarla, nel caso delle culture islamiche, dal punto di vista cronologico e geografico. Nasce il sospetto che gli europei vogliano sottrarre al Medio Oriente il diritto all’immagine, qual è rivendicato da ogni cultura. È giusto replicare che una cultura visiva può definirsi anche in un modo diverso che tramite le immagini, sebbene in Occidente siano proprio le immagini a costituirne la misura. La mia ricerca vuole spezzare una lancia a favore di tale obiezione, interrogandosi su ciò che in Medio Oriente ha preso il posto delle immagini e sul modo in cui la scrittura o la geometria fondata su modelli matematici vi hanno creato uno standard estetico. All’interno del nostro discorso la domanda non è per quale motivo l’immagine prospettica non sia esistita in altre culture. Ci si deve chiedere, al contrario, quali condizioni ne abbiano favorito la nascita nella cultura occidentale.