Agorà

Intervista. Servillo: «Quel ponte fra Italia e Argentina»

Andrea Pedrinelli giovedì 18 giugno 2015
«Somos todos parientes », ovvero siamo tutti parenti. Il senso del nuovo progetto cultural-discografico di Peppe Servillo, voce degli Avion Travel e da tempo dedito a opere soliste d’alto bordo anche in teatro col fratello Toni, sta in fondo nelle parole intrise di saggezza popolare pronunciate dalla madre di Natalio Mangalavite: ovvero il pianista argentino che col sassofonista suo connazionale Javier Girotto firma l’agrodolce, delicatissimo Parientes, nuovo lavoro del trio con Servillo incentrato sul ponte creatosi fra Italia e Argentina sul filo dell’emigrazione. La frase «siamo tutti parenti » va ovviamente estesa a tutta l’umanità, ed è quanto mai necessaria stante le cronache di tutti i giorni. Però certo non è male iniziare a riflettervi partendo dal punto di vista singolare di un cd che mesce milonghe, tanghi, cumbie d’Argentina a ironia, disincanto, filosofia partenopee. Perché questo cd, con grazia e profondità, partendo da brani di inizio Novecento per arrivare a oggi, testimonia che anche noi italiani migravamo. E che proprio grazie a ciò ora ci troviamo fratelli culturali di un popolo lontano. Quali erano gli obiettivi di questo nuovo album? «Sicuramente non volevamo fermarci banalmente alla cronaca, per quanto sia urgente prestarvi attenzione: abbiamo messo in fila figure famigliari tipiche, forse un’umanità minore ma comunque ben presente sul ponte ideale fra Italia e Argentina, per approfondire lo scambio fra due culture vicine dal punto di vista dell’uomo comune. La nostra cultura in pratica ha fondato quella argentina, grazie all’emigrazione». Perché però nessun brano specifico sul tema? «Perché usare una chiave diversa da quella della cronaca permette in fondo di prendere le distanze e capire meglio: perciò, il sentimento e l’ironia». Con quale filo conduttore fra passato e inediti? «I brani argentini che abbiamo scelto, cercando fra l’altro di uscire anche musicalmente dalla solita Argentina di Buenos Aires, quella del tango, sono scritti da figli di italiani. E gli inediti portano quella mescolanza ad oggi. Con Girotto e Mangalavite io per primo del resto ho compreso quanto la teatralità napoletana si avvicini ai loro modi interpretativi, e lavorando insieme da tempo ora abbiamo unito tutto, compreso il jazz da cui loro provengono, dentro la comune forma canzone». Cosa significa comunque cantare oggi popoli migranti? «Significa praticare una memoria. Suggerire che diversità è ricchezza, visto che le migrazioni hanno dato vita a espressioni culturali capaci di creare veramente nuovi mondi. E poi significa che trovare un’identità comune non dovrebbe essere tanto difficile: con l’accoglienza ovvio risultato». Nel brano Cambalache, rigattiere, del 1934, sembra però esservi molto disincanto: perché poca speranza? «In realtà il brano, popolare, la contiene. Nella forma dell’invettiva contro un mondo che mescola virtù e vizio portando a cinismo e indifferenza. È stato tradotto in napoletano perché pure noi cantiamo così la rabbia. Di contro Cafetìn de Buenos Aires e altre, però, suggeriscono fiducia nell’uomo». Quanto contano mistero e religione, nel percorso? C’è un brano, Kunikarani, che parla di quello… «Molto. Per me il mistero è qualcosa su cui affacciarsi e il modo dipende da noi: dunque la speranza è sempre possibile. Per questo abbiamo scelto il brano, il cui titolo è intraducibile, di quel nuovo gruppo andino che sottolinea il senso di conservare i miti, le visioni ancestrali, i credi». È reduce da numerose tournée con suo fratello. Ma Peppe Servillo ora si sente più attore o musicista? «Sono mestieri diversi che apparento da autodidatta ma resto cantante: di pronuncia, di canto teatrale». L’impressione da fuori è che Toni sia molto rigoroso e lei ami invece la leggerezza del porsi… È così? «Potrebbe essere vero, sì. Del resto ho verificato approcciando Eduardo De Filippo con lui che a teatro devi svuotarti, per essere credibile nella convenzione del recitare. Nella musica invece è il contrario, metti in scena quanto sei. E in musica anche la malinconia è più festosa, mentre il teatro punta molto spesso su forti domande di senso». Quando tornerete in scena assieme? «A febbraio, con La parola canta, pure a Barcellona. Nel frattempo mi misurerò col ruolo di Gianni Agus nell’Opera da tre soldi di Brecht vista da Strehler, al Piccolo di Milano.  Parientes andrà in tour a Bologna, Torino, Siena e poi in inverno». Iniziava a cantare 35 anni fa esatti: bilancio? «Con gli Avion Travel eravamo compagni di scuola, avevo 19 anni e non cercavamo fama: bensì di condividere, sperimentare, creare coscienza artistica in comune dentro una piccola città come Caserta. Infatti siamo ancora uniti e ognuno di noi ha avuto sbocchi diversi, le colonne sonore, l’Orchestra di Piazza Vittorio… Quindi questi 35 anni vanno letti secondo aspettative che non erano il successo. Io lavoro per liberare la mia identità e conoscerne altre: altrimenti sarei uscito subito da un gruppo, per fare soltanto il cantante solista».