Internet. Se la ricchezza del pensiero finisce in pasto alle logiche dell'algoritmo
Qualche anno fa il Seo, acronimo anglosassone per Search Engine Optimization, un complesso di attività volte a ottimizzare i siti web migliorandone il posizionamento nei motori di ricerca, era materia per pochi specialisti. Oggi il termine è molto più diffuso, anche se non altrettanto approfondito. Come molti ambiti dell’informatica, nonostante le apparenze, il Seo è un ambito fortemente conteso tra scienza e filosofia e qualche intrusione del caso. Si possono perfezionare i protocolli per migliorarne l’efficacia ma la vera certezza del risultato è affidata alla entità misterica degli algoritmi che regolano i robot, incursori informatici che pattugliano costantemente i contenuti della rete districandosi tra bug occasionali e sciami di snippet di ogni sorta.
Credo che il Seo, in modo insospettabile ai più, sia il simbolo perfetto delle dinamiche della AI, per le quali il termine virtuoso ha abbassato enormemente le sue aspettative. Ovviamente esistono miriadi di applicazioni intese ad agevolare il compito dell’ottimizzazione, estremamente utili per orientarsi nei meandri della scalata al ranking dei motori di ricerca. Smanettando un po’ con alcune di queste mi sono reso conto di quanto sia facile dismettere qualunque ricerca di significato, qualunque riflessione, qualunque complessità di pensiero, per cercare di soddisfare le richieste dell’algoritmo, che ti premia solo se rispondi alle sue richieste. Richieste che non vengono da una qualche divinità esoterica ma dai programmatori inequivocabilmente al servizio quasi esclusivo del mercato.
Un tempo si inserivano nel testo pagina e nel suo codice le parole chiave, una versione nostalgica degli hashtag. Inserire tante parole chiave molto frequentate era abbastanza premiante. Non importava che queste parole fossero strettamente legate ai contenuti del sito. Ricordo per esempio la corsa a inserire la parola sex ovunque, non importa se in siti di bricolage o giardinaggio. Tutto per compiacere i motori di ricerca. Al di là della sua evidente idiozia, questa pratica era tutto sommato inincidente sulla mentalità generale del pensare un sito, che manteneva la sua indipendenza, fatta eccezione per le parole chiave e qualche altro metatag.
Senza entrare troppo nel tecnico, che già di suo è di una noia mortale, passo immediatamente all’oggi. Ora le applicazioni per l’indicizzazione ti indicano quale sintassi adottare, e di conseguenza, con la sintassi, con la impostazione e frequenza delle frasi e la loro aderenza ai "dati strutturati", di fatto ti incoraggiano ad adattare il contenuto alla richiesta dell’algoritmo. La forma delle frasi, la frequenza, la "densità" delle frasi chiave, sono richieste estremamente invasive che influiscono irrimediabilmente sul congegno stesso dei contenuti che si vogliono esporre. È una questione di scrittura e senso, tema ricorrente nel conflitto insanabile tra AI e uomo cui ho già accennato in riflessioni precedenti.
D’altro canto il web, la AI e tutto ciò che precede e consegue, sono eventi-scrittura. Una scrittura totalmente disinteressata al senso. Privilegia la funzione, e non potrebbe essere altrimenti data la sua natura di impianto tecnologico. Quando la nostra scrittura, che invece è in ogni caso scrittura di senso (poco o molto che sia), si adegua alla architettura statistico tecnologica, perde autonomia, diventa piatta, ferretto di una lobotomia progressiva, cui ci sottoponiamo volontariamente in vista di migliori piazzamenti nel ranking. È esperienza ormai universale verificare che nelle ricerche molto spesso si trovano ai primi posti siti di raccolta istantanea database, privi di ogni contenuto, collettori di altri link, pensati e congegnati per aderire perfettamente ai requisiti web crawlers.
Non è un processo così facile da identificare. L’appiattimento su una architettura di linguaggio adeguata alla statistica è sofisticato e di conseguenza dissimulato molto bene. Frasi, proposizioni, contenuti complessivi delle pagine vengono sempre più concepiti con processi che sembrano andare verso la comprensibilità e la accessibilità dei contenuti. Invece finiscono per diventare un patchwork linguistico in cui il significato è al servizio del ranking e non viceversa.
Quando si incontra il Seo si può pensare di aver trovato la panacea per il cittadino smart del nuovo millennio tutto comunicazione e business online. Invece si è trovata la cifra molto economica per cui siamo disposti a rendere le armi a un nemico che siamo noi stessi, la nostra rinuncia al senso critico, alla identità, alla consapevolezza, alla diversità. In definitiva la nostra rinuncia alla complessità, nostra grande ricchezza, in favore... di una promozione su Google.