A un primo impatto, l’impressione che si ha leggendo la parabola del seminatore (Lc 8, 5-8.11 15), è che siamo di fronte a un contadino quanto meno sprovveduto e poco accorto, che non conosce il proprio mestiere. Getta il seme a caso, sprecando in abbondanza un bene prezioso e mettendo a rischio il buon esito del raccolto. Quale sapiente contadino, uscito a seminare, farebbe cadere il seme sulla pietra, sulla strada o tra le spine? Avrebbe prima arato e ripulito il terreno di erbacce, rovi e sassi. La semina del grano era un lavoro da «uomini adulti, da gente che avesse masticato la fatica della terra, gente che nelle mani dure e nella schiena avesse memoria di quanto fosse costato portare quella terra a essere pronta a custodire, e poi a crescere il grano», scrive Gianmaria Testa, il «cantautore dei contadini», nel suo bel libro
Da questa parte del mare (Einaudi). Un lavoro che richiedeva coordinazione, calma, attenzione, ritmo, passo regolare, mano ferma e testa sgombra da altri pensieri: «Ci si metteva il sacco di iuta a tracolla, con l’apertura verso la mano destra e poi si partiva. Al primo passo s’infilava la mano nel sacco cercando di prendere sempre la stessa quantità di grano, al secondo si faceva un largo gesto con il braccio e si apriva il pugno in maniera da spargere i semi in modo uniforme davanti e a lato del proprio corpo in movimento. La semina del grano a mano assomigliava a una preghiera, una specie di rosario fatto di gesti invece che di Avemaria e Paternoster. Era una lunga e sudata giaculatoria». È forte il contrasto con il seminatore della parabola di Luca. Ma le vie del Signore non sono le nostre. Quel che è stoltezza per gli uomini, è saggezza agli occhi di Dio. Non possiamo immaginare che Gesù sia uno 'sprovveduto seminatore', che spreca il seme gettandolo ovunque, a caso. Luca vuol farci capire subito che nel regno di Dio non c’è preclusione per nessuno. Nessuno è discriminato perché il suo terreno è sassoso o pieno di spine. Il cristianesimo non è un club esclusivo per eletti e santi, tanto meno una 'setta' per pochi adepti. La salvezza di Dio è universale. La 'buona novella' è per tutti, per i buoni e i cattivi. Allo stesso modo in cui Dio fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. E non estirpa la zizzania dal campo, permettendo che cresca assieme al grano. Gesù intende seminare dappertutto, non si lascia guidare da criteri umani di opportunità ed efficienza. Semmai, contro ogni consuetudine, predilige i terreni più difficili e impervi, quelli all’apparenza improduttivi e ai margini, che nessuno prende in considerazione. Con grave scandalo dei benpensanti o di chi si ritiene d’essere, sempre e comunque, un «terreno buono». I poveri, gli ultimi, gli 'scarti di umanità' delle periferie esistenziali sono i prediletti, al centro della sua attenzione. Dio non si stanca mai di accoglierci e perdonarci. Per la misericordia di Dio anche i cuori duri come pietre sono terreno fertile. Gesù, spargendo il seme dappertutto, non intende distinguere né giudicare i diversi terreni. È Satana che divide e semina zizzania, mettendo gli uomini gli uni contro gli altri. E questi, in modo cruento, si uccidono con le armi nelle tante guerre che insanguinano il mondo. Ma c’è una morte che ci tocca più da vicino. È quella 'a sangue freddo' che uccide il fratello con l’indifferenza o con il «terrorismo delle chiacchiere e maldicenze», quando le parole – soprattutto nel mondo della comunicazione – sono usate come pietre o proiettili. Con Dio nessuno ha l’esclusiva del terreno buono, nessuno può rivendicarne il monopolio. Anche se continui sono i tentativi di manipolare e strumentalizzare la religione per altri fini e scopi. O a vantaggio di interessi particolari, inclusi quelli economici e politici. Al suo cospetto non ci sono privilegiati o esclusi per sempre, perché in ogni essere umano coesistono sassi, spine e terra buona. La parabola del seminatore appare così chiara che non avrebbe bisogno di commenti. Ma se Gesù (o la Chiesa primitiva, non importa) ha voluto darne l’interpretazione, è perché c’è qualcosa di più profondo, che sfugge all’apparenza. Questa è l’unica parabola riportata dai tre evangelisti sinottici assieme alla spiegazione che ne dà il Signore. Marco e Matteo la collocano come prima nella sezione delle parabole. Luca ne fa una 'chiave di lettura' non solo del Vangelo, ma della vita stessa della Chiesa. Con un duplice scopo: primo, indicare quale deve essere l’atteggiamento dei discepoli nell’ascolto della Parola; secondo, spiegare che, nonostante gli apparenti fallimenti di Gesù e gli insuccessi della prima comunità dei cristiani, il buon esito della parola di Dio è garantito. Luca ci dà un messaggio di speranza e ottimismo. Per questo il teologo ed esegeta Xavier Léon-Dufour ritiene che la parabola del seminatore sia il 'compendio' del Vangelo. Venendo ai terreni, il seme caduto sulla strada, destinato a essere calpestato o mangiato dagli uccelli del cielo, ci richiama l’indifferenza del mondo attuale nei confronti di Gesù e del messaggio cristiano. Indifferenza che è peggio dell’ostilità. Un ateo convinto, a modo suo, il problema di Dio se lo pone. La società secolarizzata non vuole più sentirne parlare. Intende, anzi, estromettere la religione dalla sfera pubblica, quasi fosse un retaggio del passato, una manifestazione arcaica che non s’addice ai tempi moderni e al progresso della tecnica e della scienza. Ma una società che non ha Dio nel proprio orizzonte, non sarà senz’altro migliore. Così, oggi, il mondo è pieno di 'creduloni' che affidano le sorti della propria vita a maghi e ciarlatani, a oroscopi e indovini. Il seme caduto sulla pietra evidenzia il tema delle radici, quando sono deboli e non affondano nel terreno. Come avviene per un cristianesimo che è solo di facciata e consuetudini in un’Italia che si dichiara cattolica al 90%. Anche se lo è solo all’anagrafe battesimale, non certo negli stili di vita, che contraddicono i valori evangelici dell’amore incondizionato per il prossimo, del bene comune, della sobrietà, dell’accoglienza, della solidarietà… Tutti siamo preoccupati per la crisi economica che sembra non avere fine, ma dovrebbe inquietarci maggiormente la crisi dei valori, cioè quel mondo improntato a egoismo, arrivismo e relativismo etico. Alle nuove generazioni stiamo lasciando in eredità tante 'macerie etiche'. Il seme caduto tra le spine è quello destinato a essere soffocato dalle preoccupazioni, dalle ricchezze e dai piaceri. Per il filosofo polacco Bauman viviamo in una 'modernità liquida', senza più solidi punti di riferimento. E papa Francesco ci mette in guardia dalla 'cultura dello scarto', dell’«usa e getta» che non distingue gli uomini dalle cose, e calpesta la dignità delle persone non più efficienti e utili alla società: «La cultura del benessere che ci porta a pensare a noi stessi – ha detto Bergoglio nel suo viaggio a Lampedusa – ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta alla globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!». Nella Giornata mondiale della gioventù a Rio de Janeiro, papa Francesco ha preso spunto dalla parabola del seminatore per interrogare i giovani: «Che tipo di terreno siamo, che tipo di terreno vogliamo essere? Sono un giovane intontito? Accogliamo Gesù, ma non abbiamo il coraggio di andare controcorrente?». A Dio non importa la qualità del nostro terreno, quel che ci chiede è di collaborare al suo progetto di misericordia e salvezza nei nostri confronti e verso ogni uomo.