Anniversario. L'opzione per i poveri del modernista Semeria
«L’abito di Leone Tolstoj rassomiglia a quello di un contadino russo e il suo pasto è ugualmente semplice, frugale. Ma tra Tolstoj e il contadino russo esiste la stessa differenza che c’è fra la polenta che il ricco mangia per divertirsi una volta all’anno e quella che il povero mangia per necessità tutti i giorni della sua vita». L’aspro giudizio sul grande scrittore russo è di padre Giovanni Semeria. Nell’estate del 1903 il barnabita parte per la Russia con l’amico don Salvatore Minocchi. L’idea è quella di recarsi a Jasnaja Poljana, nella tenuta dove risiede il settantacinquenne scrittore, che è diventato un riferimento culturale per i credenti che ritengono necessario rivolgere maggiore attenzione al riscatto dei poveri e pensano a una Chiesa più dinamica e attenta alle emergenze sociali. I due passano per Vienna e San Pietroburgo.
A Jasnaja Poljana vengono ospitati affabilmente da Tolstoj. In seguito ai loro lunghi colloqui comincia a farsi strada in Semeria l’idea che lo stare dalla parte di chi ha bisogno non può portare a frutti concreti se resta semplice ideologia o atteggiamento culturale. Deve invece impregnare nel cuore e nel midollo la vita e l’attività della Chiesa. Insomma, non si può semplicemente stare dalla parte dei poveri alla maniera intellettuale di Tolstoj, che «a momenti sembra che il problema morale e religioso lo assorba tutto intero...», ma se si vuole che il suo «umanitarismo » diventi «vero cristianesimo», cioè si trasformi in carità, occorre scendere in campo, sporcarsi le mani. Tutto questo, 76 anni dopo, a Puebla, sarebbe stato chiamato «opzione preferenziale per i poveri». Concetti che oggi appartengono al quotidiano racconto della Chiesa di Francesco, ma che all’epoca di Semeria, espressi in questi termini, erano rivoluzionari. Il barnabita li lascia intendere fin da una corrispondenza per il Cittadino scritta a caldo dalla Russia. In seguito li maturerà fino al punto di farli diventare la sua stessa vita.
Una posizione che non è condivisa da Genocchi, il cui fascino per la forza intellettuale e critica di Tolstoj resta intatto. E non è un caso che nella temperie modernista le loro vite nella Chiesa prendano quasi subito strade opposte: Genocchi sospeso a divinis lascia l’abito talare e diventa docente alla Sapienza; Semeria, pur cercato da famose università protestanti in Europa, dichiara piena fedeltà alla Chiesa e dopo la cruda esperienza della Prima guerra mondiale diventa apostolo della carità e servo degli orfani, al punto di morire di stenti per restare fedele alla promessa fatta ai loro padri nelle trincee sul fronte orientale. Di Semeria si celebrano i 150 anni della nascita avvenuta a Coldirodi, sopra Sanremo. Nato orfano di padre, con la madre costretta presto a migrare in Piemonte per sopravvivere, diventa il prete forse più conosciuto della sua epoca. Predicatore di rara efficacia e tuttora di grande modernità. Capace di parlare alle folle e di farsi capire sia dagli intellettuali laicisti che dai poveri soldati meridionali al fronte, ma anche dai bambini che accoglie nelle tante case fondate con don Giovanni Minozzi negli anni Venti. Questa sera alle 18 il cardinale Gianfranco Ravasi celebrerà una messa solenne in suo ricordo a San Lorenzo in Damaso, a Roma. Pulpito da cui Semeria predicò il famoso quaresimale del 1897, al quale giorno dopo giorno giunsero a partecipare così tante persone da intasare le strade: gente del popolo, ma anche alcuni cardinali fra i quali Satolli e Parocchi, molti professori della Sapienza guidati da Antonio Labriola, amici come Giulio Salvadori e Silvio D’Amico, Filippo Crispolti, giovani come Ugo Ojetti, luminari della scienza come Antonio Stoppani, donne come la regina Margherita e le femministe e letterate Adelaide Coari e Dora Melegari. Il 30 settembre verrà poi scoperta una statua a Coldirodi e la sera alle 18 ci sarà una celebrazione presieduta dal vescovo di Ventimiglia-Sanremo, Antonio Suetta, nella concattedrale di San Siro a Sanremo. Semeria, dicevamo, venne giustamente considerato il prete più famoso della sua epoca. Lo conoscevano davvero tutti e in ogni casa dove si presentasse negli ultimi anni di vita per la sua quotidiana questua in favore degli orfani veniva accolto come uno di famiglia.
Accadeva, per esempio, anche a casa di Giovan Battista Montini, a Brescia. Sarà lo stesso Paolo VI a ricordare come quel prete seppe rincuorare i suoi genitori preoccupati per lui, che in seminario era afflitto da vari problemi di salute, predicendo persino che un giorno sarebbe diventato «vescovo e anche di più». Di lui, negli anni che seguirono alla morte, si è parlato tanto e soprattutto riguardo alle simpatie moderniste, al suo impegno come cappellano militare nella Grande Guerra, alla sua cultura enciclopedica, alle sue straordinarie amicizie fra i letterati più famosi con i quali intratteneva sterminati carteggi (si contano solo trentun lettere con Pascoli), alle decine di libri che ha scritto, all’impegno negli studi biblici. Meno si è parlato della sua modernissima e attualissima “opzione per i poveri”, teorizzata in tempi non sospetti e poi messa in pratica con la vita e con l’aiuto del fraterno amico don Giovanni Minozzi (conosciuto al fronte), col quale fondò l’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia per aiutare gli orfani di guerra. Quasi per nulla si è detto della sua devozione per il Sacro Cuore e per Maria, del suo costante indicare ai giovani l’esempio della croce, della sua spiritualità ardente. Se all’epoca delle grandi predicazioni a Roma e a Genova (dove ha vissuto fra il 1895 e il 1912, anno in cui a causa delle accuse di modernismo dovette trasferirsi fra gli emigrati in Belgio) forgiava «ogni parola nella preghiera», negli ultimi anni era giunto a scrivere ogni sua conferenza e libro solo per raccogliere «denaro per dare da mangiare ai miei figli», di notte (di giorno non aveva tempo), inginocchiato a terra e il foglio appoggiato su una sedia.
Un’ascesi che in lui si era perfettamente fusa alla carità, della quale era frutto diretto: più viveva per i poveri più il suo sguardo era rivolto a Cristo. Un vero profeta della fede nella modernità, passato anche attraverso il più emblematico travaglio del Novecento: la depressione. Lo colpì alla vista degli orrori della trincea. La disperazione lo portò sull’orlo del suicidio e a mesi di malattia. Il modo in cui ne uscì, più forte di prima, è anch’esso una profezia lasciata alla Chiesa e al nostro tempo. Ma questo è materiale per un altro articolo.