Con Cesare Segre scompare l’ultimo maestro degno di tal nome nell’umanistica letteraria: perdita particolarmente grave nei nostri tempi, in cui nelle università potere e prestigio sono sempre più divaricati, e l’accademia è pilotata da baronetti di mediocre livello scientifico e ancora più basso di condotta. Due parole per definire il suo stile intellettuale? Sconfinamento e rigore. Sconfinamento geografico, per il carattere europeo della disciplina che professò, la filologia romanza, e per il respiro internazionale dell’intellettualità ebraica cui apparteneva e in cui si formò con maestri come Santorre Debenedetti e Benvenuto Terracini. Sconfinamento anche di genere, perché le sue ricerche non rimasero imbrigliate in singole discipline e metodi: attraversò e anzi combinò filologia romanza, italianistica, ispanistica, stilistica, strutturalismo, semiologia, teoria della letteratura... Era, insomma, un uomo dell’universitas e non della «poliversità», dello spezzettamento angusto e specialistico dei saperi. Quanto al rigore lo dimostrò con la sua condotta in ambito universitario, negli interventi militanti sul «Corriere della sera» e nei suoi studi.La sua bibliografia è impressionante: basti ricordare le edizioni critiche dell’
Orlando furioso, con cui offrì un modello pionieristico della filologia d’autore, e della
Chanson de Roland, con cui indicò una nuova rotta conciliando Lachmann con Bédier, e dimostrando che dalla scuola italiana poteva veniva l’edizione esemplare di un capolavoro francese ed europeo (dovrebbe rifletterci chi oggi si accoda passivamente anche in campo italianistico alla dominante prospettiva americana).Chi ha avuto la fortuna di essere stato suo allievo a Pavia ne è rimasto segnato. Segre era anagraficamente il più giovane e il più precoce nella carriera, del tris d’assi con cui, insieme a Corti e Isella, fece di quell’ateneo la punta di un rinnovamento metodologico che ha lasciato un forte segno nella nostra cultura. Già prima dei
Metodi attuali della critica (1970), saggio nato dal sodalizio con Maria Corti, aveva aperto la via con
l’Inchiesta sullo strutturalismo (1963) con il quale portò in Italia Roman Jakobson (i suoi interlocutori privilegiati si sarebbero poi chiamati Bachtin e Lotman). Per i tre condirettori di «Strumenti critici» (1963) l’allievo di uno era allievo degli altri, con una concordia che durò per molti anni, prima che le loro vie si divaricassero: mentre Isella restava più legato al magistero filologico continiano e Corti assecondava crescenti interessi teorici e creativi, Segre seguiva e in parte determinava gli sviluppi internazionali della semiotica, salvo richiamare l’urgenza di una Semiotica filologica (1979), a freno delle derive tuttologiche, e denunciare la perdita di sicure bussole critiche (
Notizie dalla crisi, 1993). Segre non aveva nulla del docente seduttore, nulla del comunicatore brillante, anche perché il rigore e certa timidezza lo mettevano fuori dalla schiera degli affabulatori a effetto. Conquistava gli allievi con la sua eleganza intellettuale, frutto di un razionalismo cristallino condito con tocchi di ironia: un esprit de finesse sciolto dentro l’esprit de géometrie del suo dire e del suo scrivere. Quando divampò il Sessantotto, dialogò con gli studenti cercando l’ardua conciliazione tra esigenze democratiche e salvaguardia della qualità degli studi. Fermo nei princìpi e delicato verso gli altri, aveva un forte senso dell’amicizia: le riunioni in casa sua e della moglie Marisa Meneghetti per la rivista «Diverse Lingue », con il sognante Franco Loi e il maudit Amedeo Giacomini, ne erano un segno tangibile. La riservatezza dell’uomo e il prestigio dello studioso potevano imbarazzare chi lo incontrava, ma bastava frequentarlo per essere affascinati dall’ironia con cui condiva la conversazione. «Resteremo nel futuro coi nostri studi?», gli chiedeva una collega sognatrice; e lui: «Certamente, in qualche nota a piè di pagina». Non è un caso che i suoi studi abbiano investito maestri dell’umorismo e dell’ironia, come Boccaccio, Ariosto, Cervantes, Gadda, Calvino. Ironia voltairiana? Ripenso a una pagina toccante della sua autobiografia: adolescente, rimase a lungo chiuso in una soffitta dove un religioso l’aveva nascosto per metterlo al riparo dalle persecuzioni razziali, sul finire della guerra. Lì, per ingannare il tempo il clandestino lesse tutto Voltaire, anche se avrebbe preferito «Topolino». Sta forse qui la lontana radice del suo razionalismo sorridente e disincantato.La sua era una visione immanentistica, laica, quella per cui interpretò le rappresentazioni letterarie della follia e dell’oltremondo come proiezioni dell’aldiquà (
Fuori del mondo, 1990). Visione amara, anche: quella per cui scrisse di non aver voluto figli. Ma disincanto o scetticismo non hanno comportato abdicazione: il Segre impegnato degli ultimi anni ricupera una vocazione latente nel giovanile
Lingua stile società (I963), l’idea che lo studio delle forme acquista senso collegandosi ai valori civili. Il tragitto dagli studi giovanili su Ludovico Ariosto a quelli senili su Primo Levi ha una sua implicita eloquenza.