«Chi conosce le cose non fa previsioni, chi fa previsioni non conosce le cose». Chissà cosa direbbe oggi Lao Tsu, poeta cinese vissuto nel VI secolo a.C. e autore di queste parole, davanti alla sterminata mole di dati, ricerche e analisi, tutte univoche e concordanti nell’affermare la grande avanzata del continente asiatico. Non c’è campo in cui scrittori, economisti e politologi non si esercitino nel decretare virtù e vizi della terra destinata a soppiantare l’egemonia del vecchio Occidente. Ma è davvero così? Nelle scorse settimane, un volume edito da Luiss University Press, intitolato L’Europa e l’Italia nel secolo asiatico, a cura del Centro studi di Confindustria (pagine 208, euro 18,00), ha messo in luce qual è la portata della sfida a cui andremo incontro. Partiamo dalla ricerca e dalla produzione culturale: il Giappone ha superato Stati Uniti e Ue per numero di brevetti e, assieme a Corea del Sud e Svezia, è il primo Paese al mondo a investire in innovazione rispetto al Pil. Se si guarda al campo delle pubblicazioni scientifiche, nel periodo che va dal 1995 al 2009 la Cina è salita da un misero 1,6% al 9,5% mentre i due colossi atlantici scendevano dal 70% al 58%. A Tokyo e Seul più della metà dei giovani ha una laurea, contro il 20% dell’Italia e, in materie come la matematica, le performance di università come quelle di Shanghai, Hong Kong e Macao sono le migliori al mondo. Il confronto non riguarda ovviamente solo la produzione di conoscenza, ma la stessa creazione di ricchezza: mentre in questo primo decennio del ventunesimo secolo ci siamo a lungo affannati a discutere sul “sorpasso” cinese ai danni degli Usa, avremmo dovuto pensare che nel 2050 il Pil di Pechino “doppierà” quello degli States (29,5% la quota mondiale contro il 16,3%) mentre l’India supererà l’intera Europa (17,2% contro 13%). Sarà dunque un’irresistibile ascesa, speculare a un inevitabile declino? Non è affatto detto, se ciò vorrà dire sviluppo tumultuoso senza i giusti contrappesi sociali.Un esempio? In campo ambientale, la Cina già batte tutti per emissioni di CO2 da combustibile e, se si considera l’indice di sviluppo umano elaborato dall’Onu (che riflette i livelli di Pil pro capite, istruzione e speranza di vita), India e Cina sono fanalini di coda, assieme ai Paesi africani. «Che sia iniziato il secolo asiatico è tutto da vedere – osserva Giulio Sapelli, ordinario di Storia economica all’Università degli Studi di Milano –. In realtà siamo di fronte a un continente che non ha ancora sufficienti basi culturali per sostenere uno sviluppo economico impetuoso. Non c’è una religione unificante come lo è il cristianesimo in Europa, solo morali religiose a mio parere incapaci di garantire un rapporto virtuoso tra crescita e umanesimo, etica ed affari. Per questo, penso sia più probabile un nuovo secolo nordamericano in Asia, anche a partire dalla prospettiva assai prossima dell’indipendenza energetica degli Usa».La presenza delle grandi major nei territori dell’Asia minore e del Medio Oriente, dove da tempo si concepiscono progetti infrastrutturali ambiziosi, dimostra l’intenzione statunitense di tenere a bada la crescita del gigante orientale e, se a ciò aggiungiamo la scommessa giocata in casa sullo shale gas, il nuovo metano dall’alto potenziale che piace alle compagnie a stelle e strisce, si capisce chiaramente perché Washington non intenda abdicare facilmente alla sua leadership. Quel che è certo è che finora la “pace fredda” siglata da Barack Obama prima con Hu Jintao e adesso con Xi Jinping verrà messa alla prova dai nuovi equilibri di forza che si creeranno sul terreno economico. La Casa Bianca ne è ovviamente consapevole, per questo nel novembre 2011 ha siglato una partnership con otto Paesi dell’area del Pacifico: l’obiettivo è garantirsi un ruolo strategico in una zona dove si concentra il 44% del commercio mondiale e viene prodotto il 55% della ricchezza. «C’è una convenienza reciproca a mantenere rapporti di collaborazione, anche militare, tra Pechino e Washington» fa notare Giuliano Noci , docente del Politecnico e ricercatore all’Università di Shanghai. Il più grande continente del mondo deve in realtà accelerare sui percorsi di formazione universitaria e sull’innesto di nuove professionalità nel sistema delle imprese. «Settori come le telecomunicazioni vedono già aziende asiatiche in prima fila nella competizione mondiale e, se si pensa all’arretratezza attuale del sistema sanitario, in comparti come quello farmaceutico il mercato potenziale è enorme» continua Noci. La variegata mappa dello sviluppo comprende situazioni regionali diverse: si va dal Giappone che vuole uscire dal ventennio della depressione e si affida alle cure choc del premier Shinzo Abe, all’India che potrebbe superare la Cina per Pil pro-capite nei prossimi anni, fino alle ex Tigri che si muovono oggi con maggior razionalità rispetto al recente passato.«Non sono più i Paesi del capitalismo autoritario – sintetizza Sapelli – ma democrazie in fase di lento rodaggio che puntano sulla diffusione della conoscenza verso masse operaie ormai qualificate». È il caso di Singapore e ancor di più della Corea del Sud o di Stati come il Vietnam e l’Indonesia, «che oggi sono come la Cina quindici anni fa» spiega Noci. In realtà, nella polarizzazione dei grandi flussi dell’economia internazionale, quel che colpisce è la debolezza strutturale dell’Occidente, in particolare dell’Europa. In attesa di capire se il nuovo ordine internazionale cambierà garante, è forse il tramonto del Vecchio continente il primo effetto duraturo della metamorfosi geopolitica originata dalla Grande Crisi.