Anniversario. Seamus Heaney, la poesia per scavare la vita
Il poeta irlandese Seamus Heaney
L’ultimo messaggio che Seamus Heaney inviò a sua moglie Mary il 30 agosto 2013 recitava così: «Noli timere». Il poeta irlandese si apprestava a varcare la soglia della vita e lo faceva con quell’amore (nei confronti della coniuge) e quella fede (nei confronti della lingua, del latino evangelico) che erano già ravvisabili nel «never fear» di una delle primissime liriche, L’impalcatura, presente in Morte di un naturalista (1966): «Perciò, mia cara, se talvolta sembra / che tra me e te stiano cedendo vecchi ponti, / non temere. Lasciamo pure cadere l’impalcatura, / sicuri di avere costruito il nostro muro». L’edificio della poesia innalzato da Heaney è saldissimo a distanza di un decennio dalla sua scomparsa.
Lo testimonia l’estrema attenzione dell’editoria nostrana: le Poesie – già uscite in un memorabile “Meridiano” nel 2016 – sono pubblicate ora nello “Specchio” Mondadori (a cura di Marco Sonzogni, pagine 992, euro 26). Davvero straordinarie le traduzioni, che si avvicendano nel testo, di Massimo Bacigalupo, Luca Guernieri, Gabriella Morisco (a cui va ancora il mio sentito ringraziamento per l’opportunità di conoscere il poeta a Bologna nel 2012), Roberto Mussapi, Anthony Oldcorn, Francesca Romana Paci, Gilberto Sacerdoti, oltre lo stesso Sonzogni. Anche le “versioni pascoliane” di Heaney, On Home Ground. Come a casa (a cura di Marco Sonzogni, pagine 136, euro 15,00), sono da poco andate in stampa per Samuele Editore, che “bissa” l’omaggio al poeta di Castledawson nel nuovo numero della rivista semestrale diretta da Matteo Bianchi, “Laboratori critici”, Given notes. Per Seamus Heaney (pagine 140, euro 15,00). Annidato dall’altra parte del globo terracqueo, il più attivo alfiere della fortuna italiana (e non solo) di Heaney, Sonzogni è docente al Victoria University of Wellington e direttore del New Zealand Centre for Literary Translation. Lo abbiamo contattato via email per rievocare, non senza catodica commozione, il rapporto personale e letterario avuto con l’autore premio Nobel.
Professor Sonzogni, che persona e che poeta era Seamus Heaney?
Una persona e un poeta “locali” per l’umiltà e la vicinanza con cui rendeva tutti – da un capo all’altro del nostro tribolato orbis terrarum – partecipi della sua vita e della sua opera; e “globali” per il profilo artistico e l’impatto morale che la sua scrittura ha esercitato e continua a esercitare in ogni ambito sociale. A dieci anni dalla sua morte ripenso a ogni istante trascorso con lui, a ogni parola scambiata a voce o per iscritto, e sparisco nella mia piccolezza per riapparire un po’ più grandicello grazie all’esempio e alla fiducia di cui ho beneficiato ben oltre i miei meriti. Tutto quello che ho fatto per Heaney dal 1992 al 2022 è stato – ora lo so bene – un modo di dirgli grazie. The Translations of Seamus Heaney sigilla non soltanto la mia dedizione ma anche il mio debito a un uomo e uno scrittore di rara umanità, generosià e abilità.
Perché Heaney era interessato a Giovanni Pascoli e, più in generale, alla poesia italiana?
Leggendo certi autori e certi testi Heaney ha riscontrato affinità di ispirazione e di intenti. E in alcuni casi questa affinità ha fatto evolvere incontro e lettura in traduzione. Anche la poesia italiana – Dante, Pascoli e Mario Luzi: tradotti; Leopardi, Montale e Calvino: letti e compresi – ha trovato spazio in questo “riscontro di affinità”. Le motivazioni e le intenzioni sono diverse ma l’effetto è lo stesso: un voltaggio esistenziale e una cifra stilistica che impartiscono alla scrittura la dimensione estetica e la portata etica cui Heaney, come persona e come autore, si sente chiamato a incarnare. Ho scelto questo verbo perché la potenza dell’esempio lasciatoci da Heaney sta, a mio avviso, nella perfetta coincidenza tra persona e poeta nel segno di una umilità e di una serietà che gli hanno permesso di tradursi da incertus (lo pseudonimo con cui firmava i primi componimenti, ndr) a sicuro – dei propri valori, dei propri mezzi, della propria missione. Dobbiamo sentirci onorati che il nostro canone letterario abbia contribuito, anche senza un accesso linguistico diretto, a questa evoluzione e a questa consacrazione.
Come ha anticipato, lei ha curato l’importante volume The Translations of Seamus Heaney per Faber and Faber (pagine 704, £ 35). Cosa vedeva Heaney nei classici, in particolare, e nella lirica medievale (penso alla stupenda versione del poema Buile Shuibhne)?
Heaney – per nascita, per interesse, per studio – è sempre stato immerso nella traduzione, considerandola un’esperienza non soltanto complementare ma anche paritaria in termini di poetica e di etica a quella della scrittura originale. In aggiunta, la traduzione ha permesso a Heaney di esprimersi sui fatti del mondo, vicini e lontani, senza compromettere la propria integrità di cittadino e di artista. Nelle opere di altri autori, dai classici antichi a quelli moderni, Heaney ha trovato una voce a cui affidare le proprie parole, i propri pensieri e per certi versi anche le proprie azioni. In questo senso non c’è distinzione tra l’aninomo autore di Buile Shuibhne e il nostro Pascoli de L’aquilone o de La quercia caduta: sono riconoscimenti, consonanze e quindi, in ultima analisi, conferme e ratificazioni di un certo modo di sentire e di vivere le cose del mondo. La traduzione sigilla questa affinità – le dà credito, le dà voce, le dà futuro. Nelle sue traduzioni Heaney evolve i testi e gli autori originali: li fa sopravvivere portandone significati e messaggi all’interno di un altro contesto e al servizio di altre circostanze. Chiudo con una metafora ornitologica a me cara. Qui in Aoteraoa New Zealand, dove vivo e lavoro, c’è un uccello – tûi nella lingua indigena, il mâori, parson bird in inglese, uccello parroco in italiano (per via del ciuffetto bianco sul collo che ricorda il collarino bianco della talare o della camicia di un sacerdote) – che ha due laringi e sa riprodurre nella timbrica del proprio canto qualsiasi suono o rumore (tra l’altro il termine inglese per laringe è voice box...).
Qual è oggi l’eredità di Heaney?
La stessa di quando ha iniziato a scrivere, affidata alla poesia-manifesto Digging che resta una delle sue liriche più conosciute e più tradotte. La scrittura è uno strumento legittimo e potente per scavare nella natura umana – per sondare e articolare le nostre potenzialità e i nostri limiti; per identificare e accettare le nostre responsabilità e le nostre mansioni; per contribuire, sia sul piano individuale che collettivo, alla realizzazione di un mondo migliore. A casa nostra e in ogni angolo del pianeta, che di generazione in generazione ereditiamo e che dovremmo, dobbiamo, salvaguardare.