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Iconografie. Se vedo imparo: pedagogie dell'immagine

Alessandro Zaccuri venerdì 6 dicembre 2019

Roberto Farné riprende in mano abbecedari, figurine e il gioco dell’oca (per arrivare fino ai Pokémon) e ne analizza il significato educativo: il sapere è anche sapienza dello sguardo C’è di mezzo Pinocchio, tanto per cambiare. Per essere più precisi, c’è di mezzo il rapporto burrascoso che il burattino intrattiene con i libri acquistati con tanta fatica dal povero Geppetto. Ed è proprio lì, dove finisce il sacrificio del falegname e dove comincia la disobbedienza della sua creatura, che si consuma la “divergenza” fondamentale su cui si regge il racconto di Collodi. Quasi nascosta in una nota, l’osservazione aiuta ad apprezzare ancora meglio la portata di Abbecedari e figurine (Marietti 1820, pagine 232, euro 24,00), l’interessante saggio nel quale il pedagogista Roberto Farné passa in rassegna il significato educativo assegnato alle immagini lungo un arco di tempo che va “da Comenio ai Pokémon”, come avverte il sottotitolo. A oltre un ventennio dall’esordio, i mostriciattoli giapponesi continuano a godere di grande notorietà, mentre il nome di Jan Amos Komensky, altrimenti detto Comenius, suona familiare solo agli specialisti. Eppure, avverte Farné, è grazie all’attività di questo umanista che le illustrazioni acquisiscono valore didattico. Il suo Orbis sensualium pictus, pubblicato a Norimberga nel 1658, abbonda di immagini che hanno l’obiettivo dichiarato di rendere possibile l’«autopsia» da parte dei lettori: ciò che si vede rimane più facilmente impresso nella memoria, perché il sapere è anche sapienza dello sguardo. Pur muovendo da posizioni tradizionali, Comenio è dunque all’origine di un processo che, in cinque secoli scarsi, ha conosciuto accelerazioni e rallentamenti, ma la cui efficacia risulta oggi indiscutibile.

Non più tardi di cinquant’anni fa, registra Farné, nella scuola italiana erano ancora molto forti le resistenze verso la pedagogia dell’immagine, che veniva tollerata in forme edulcorate e convenzionali. In modo abbastanza sorprendente, si dimostravano più consapevoli i produttori delle famose “figurine”, che invitavano i giovanissimi collezionisti a servirsene anche come materiale di apprendimento. Il libro di Farné non è soltanto una carrellata di alfabeti figurati (tra cui uno, particolarmente ingegnoso, proveniente dal Senegal e rivolto allo studio della lingua mandinga), meravigliose innovazioni grafiche, controversie pedagogiche e clamorosi fraintendimenti, come quello che, una trentina d’anni fa, induce un gruppo di educatori emiliani a rinunciare all’estrosa mobilità dell’intramontabile gioco dell’oca per adottare una rigidità iconografica del tutto priva di attrattive. Tra il geniale procedimento modulare messo a punto nell’Ottocento dallo svizzero Friedrich Fröbel (ne rimasero influenzati artisti come Klee e Kandinskij) e la “pratica della libertà” teorizzata dal brasiliano Paulo Freire, in Abbecedari e figurine trova posto anche un classico di Mario Rigoni Stern, Storia di Tönle, nel quale alle stampe popolari viene restituita la dignità propria dell’immagine, che per insegnare non ha bisogno di montare in cattedra.