Quando Benjamin Mee capisce di aver trovato la casa giusta, modesta e appartata, dove poter ricostruire la sua famiglia a pochi mesi dalla perdita della madre dei suoi due ragazzini, di quattordici e sette anni, non sa ancora cosa si nasconde lì attorno. Ma un ruggito fragoroso lo fa precipitare nella realtà: si sta trasferendo, infatti, al centro di uno zoo. Un po’ scalcinato: i proprietari precedenti sono fuggiti, i pochi dipendenti rimasti, tra cui Kelly (Scarlett Johansson), sono piuttosto depressi, come gli animali, che non hanno, pure loro, un roseo futuro dinanzi a sé. Quella narrata dal film di Cameron Crowe è prima di tutto una storia vera, ispirata alla biografia che il vero Mr. Mee ha scritto, per dire a tutti: dal lutto si può sempre guarire e c’è sempre un motivo per ricominciare. A lui capita comprando, con una buona dose di follia, ma senza arrendersi dinanzi alle inevitabili difficoltà, uno zoo (nella realtà si trova nel Devon, in Inghilterra, ma la storia è stata trasportata nei dintorni di Los Angeles) abitato da duecento animali in cerca di cura e di affetto. La mia vita è uno zoo – da venerdì al cinema – sa intrecciare insieme commozione e divertimento, infondendo un senso di amore per la vita, la nostra e quella di chi ci circonda, mondo animale incluso. Segna una svolta per il regista californiano, i cui film precedenti, come Jerry Maguire e Quasi famosi (Almost Famous), narravano vicende profondamente personali.
Matt Damon ha dichiarato di essersi sentito subito in sintonia con l’eccezionale personaggio di Benjamin Mee. È stato l’unico attore che ho preso in considerazione per il ruolo di Benjamin. Ha capito che volevo girare un film che riuscisse a instillare un po’ di gioia nel mondo. «Credo sia la cosa giusta da fare oggi», mi ha detto quando ha accettato.
Mentre Kelly, che accudisce con amore gli ospiti dello zoo? Scarlett questa volta non è una femme fatale, ma una persona semplice capace istintivamente di capire gli animali e prendersi cura di loro. Ci insegna come farlo.
Battuta memorabile di Benjamin: «Ti servono solo venti secondi di folle coraggio e ti prometto che vedrai qualcosa di grandioso». È una frase che ti può accompagnare nella vita. Un buon consiglio: spingerti qualche volta, aiutandoti da solo e per aiutare gli altri, a fare una scelta sorprendente. Significa anche avere il coraggio di assumere dei rischi. Molti dei maggiori traguardi mai raggiunti scaturiscono da rischi incredibili.
I due figli di Benjamin – interpretati da Maggie Jones e Colin Ford – combattono per non affogare con il padre nella solitudine. Come ha lavorato con loro? Ho due ragazzi di undici anni e penso che non avrei mai potuto scrivere alcune battute della sceneggiatura se non fossi stato un padre. So per esperienza personale quale sfida quotidiana sia essere un bravo genitore. Mi rende fiero come padre e come regista aver girato la scena in cui Benjamin litiga col figlio ed entrambi si rinfacciano il loro dolore e l’incapacità di superarlo, cercando insieme una via d’uscita.
Lei appare un inguaribile ottimista. Penso che il mondo sia pieno di storie e fatti che raccontano di perdite, di angosce e di tristezze e mi piace poter pensare come approdare al giorno in cui capisci cosa può succedere dopo il dolore, quando scopri per quale motivo vale ancora la pena vivere. Mi piace anche raccontare storie che celebrano quei momenti in cui tutto ciò che è bello e meraviglioso della vita si concentra o si nasconde in un attimo inaspettato, piccolo, fuggevole, impercettibile. Non è una formula che uso per commuovere, è proprio il modo col quale io affronto le cose e reagisco alle difficoltà.