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Scenari. Nel mondo dei social il quotidiano deve sempre essere “straordinario”

Giovanni Scarafile martedì 23 luglio 2024

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«Un’ora non è solo un’ora, è un vaso riempito di profumi, suoni, progetti e climi. Quello che noi chiamiamo realtà è un certo rapporto tra queste sensazioni e questi ricordi che ci circondano simultaneamente». Come ricorda Proust nella Recherche, la nostra esperienza quotidiana modella in modo spesso impercettibile il nostro essere. Ogni interazione, pensiero e percezione contribuiscono a forgiare la nostra visione del mondo e di noi stessi, consolidando la nostra essenza in un processo continuo e inconscio.

Negli ultimi anni, l’avvento dei social media sta lentamente trasformando questo processo. Le piattaforme digitali, infatti, rendendo pubbliche le nostre esperienze personali e private, introducono una nuova dimensione nell’interazione umana. E così, situazioni che una volta erano dominio esclusivo dell’individuo o del suo stretto circolo sociale, come una cena in un ristorante o una passeggiata, vengono non solo condivisi, ma trasformati in una sorta di performance.

La spettacolarizzazione delle esperienze è spesso accompagnata dalla loro esotizzazione che trasforma circostanze quotidiane o tradizionali in qualcosa di visivamente e sensorialmente straordinario. Attraverso la cura meticolosa dei dettagli, l’uso innovativo degli spazi e l’impiego di tecnologie avanzate, le esperienze vengono per così dire dislocate e reinventate, per stimolare i sensi in modi nuovi e sorprendenti. Diventa sempre più frequente, quindi, imbattersi in eventi oltremodo originali che sono il risultato diretto di tale esotizzazione. Ad esempio, un concerto di pianoforte non si tiene più solo in una sala concerti convenzionale, ma può svolgersi in una riserva marina all’alba, dove la musica si fonde con il rumore delle onde e la luce dell’alba per creare un’atmosfera magica e irripetibile. Allo stesso modo, ristoranti innovativi trasformano la cena in un viaggio sensoriale, dove gli ospiti non si limitano a sedersi a un tavolo, ma vengono trasportati attraverso diversi ambienti tematici a bordo di poltrone mobili, rendendo ogni piatto parte di un’esperienza immersiva più ampia. Anche lo yoga, una pratica tradizionalmente incentrata sulla tranquillità e l’introspezione, può essere esotizzato, trasformando il luogo di pratica: sessioni che si tengono in sale con vista sui delfini offrono una nuova dimensione visiva ed emotiva che eleva l’esperienza dal semplice esercizio fisico a un evento straordinario.

In queste situazioni, l’esotizzazione serve non solo a rendere l’esperienza più piacevole o memorabile, ma anche a distinguere queste occasioni in un mercato sempre più saturo, dove l’originalità e la capacità di offrire qualcosa di unico diventano essenziali per attrarre e mantenere l’interesse del pubblico. Se, infatti, tali manifestazioni attirano per il loro valore unico di novità e per l’opportunità di vivere esperienze fuori dall’ordinario, nei fatti, essi spingono sempre più in là i confini di ciò che, in senso tradizionale, ci saremmo aspettati da attività ricreative e culturali, facendoci collezionare momenti “instagrammabili” invece di ricordi preziosi.

Non è infondato il timore che l’incessante spinta a superare i limiti trasformi l’esperienza in un prodotto da consumare piuttosto che in un momento da vivere autenticamente. Questa trasformazione delle esperienze personali in spettacoli pubblici e consumabili si collega strettamente ai meccanismi del capitalismo contemporaneo, che valorizza il consumo anche di beni immateriali, come le nostre esperienze, che dunque diventano una forma di capitale sociale che si può accumulare ed esibire tramite i social media.

Questa commercializzazione delle esperienze ha anche un impatto su come esse vengono percepite e valorizzate culturalmente. Le attività che generano maggiore visibilità e interesse sui social media diventano più desiderabili, spostando l’attenzione da ciò che è genuinamente gratificante a ciò che è visivamente o socialmente remunerativo. Il risultato è un ciclo in cui il valore di un’esperienza è sempre più definito dalla sua capacità di essere consumata dal pubblico, piuttosto che dal suo significato intrinseco o dal piacere personale che può fornire.

L’esotizzazione dell’esperire diventa l’altra faccia della medaglia di una progressiva desensibilizzazione del sentire cui probabilmente stiamo andando incontro. In tale prospettiva, la ricerca della esclusività non sarebbe altro che un modo per reagire alla perdita di significato, come un collezionista d’arte che accumuli opere sempre più rare non tanto per il piacere estetico in sé, quanto per il prestigio e l’investimento, perdendo di vista l’emozione genuina che un tempo era evocata dall’arte. In questo modo, ciò che dovrebbe arricchire la vita diventa solo un altro segno di status, svuotato del suo valore emotivo originario.

Ci troviamo di fronte a un fenomeno che Jean Baudrillard aveva già esplorato decenni fa, identificando nella società postmoderna una sostituzione della realtà con ciò che definì simulacri—repliche senza un originale. Questi simulacri, che non solo imitano ma spesso sostituiscono la realtà, generano un’iperrealtà dove l’imitazione diventa più tangibile del reale stesso. Nell’ambito dei social media, questo concetto si manifesta con particolare intensità. Le esperienze vengono selezionate, curate e spesso alterate per apparire migliori di quanto non siano in realtà, trasformandosi in versioni più attraenti, interessanti o desiderabili. Questo processo rende l’esperienza autentica sempre più inafferrabile, poiché sfuma il confine tra realtà e finzione, lasciando emergere una nuova realtà, dominata dalla rappresentazione e meno dall’essenza autentica degli eventi.

Ciò che fa riflettere è anche il nostro atteggiamento nei confronti di tali trasformazioni. Accogliamo le dinamiche che stanno modificando il modo in cui abbiamo vissuto per decenni o con indaffarata indifferenza o diventandone i principali attori come se fossimo affetti da una sorta di sindrome di Pigmalione: come lo scultore del mito greco che si innamorò della sua creazione, cerchiamo di dare vita artificiale alle nostre esperienze online, attraverso filtri, narrazioni curate e messe in scena studiate.

Queste riflessioni ci invitano a considerare come la continua ricerca dell’esclusività e la rappresentazione mediata delle nostre esperienze possano distorcere il valore autentico del vivere, portando a una sorta di anestetizzazione nei confronti di ciò che realmente vale. Mentre la tecnologia avanza, portando con sé nuove modalità di interazione, è fondamentale interrogarci sul tipo di vita che stiamo scegliendo di condurre. Il rischio è che, nel tentativo di ottenere riconoscimento attraverso i social media, finiamo per vivere in un mondo in cui il valore delle esperienze è misurato più dalla loro visibilità che dalla loro sostanza.

In definitiva, dobbiamo chiederci se stiamo perseguendo una vita di significato genuino o semplicemente una vita di apparenze, perdendo così la sensibilità verso i valori autentici che dovrebbero arricchire la nostra esistenza. Come suggerisce Proust nelle sue parole iniziali, un’ora non è mai solo un’ora, ma un complesso vaso di esperienze e sensazioni. Se perdiamo di vista questa ricchezza, trascurando la profondità e il valore intrinseco delle nostre esperienze, rischiamo di ridurre la nostra esistenza a una mera sequenza di immagini vuote e momenti superficiali.