Agorà

Teatro. Se il distanziamento esprime l'alienazione

Michele Sciancalepore martedì 4 agosto 2020

L’“Uomo senza meta” di Arne Lygre allestito da Giacomo Bisordi sul palco del Teatro Argentina di Roma

Peter voleva essere come Pietro, la “pietra angolare” sulla quale sarebbe sorta una comunità prolifica, dalla quale sarebbe scaturito un futuro fecondo e che avrebbe rappresentato un faro per l’umanità intera. Ma Peter ignorava volutamente che per essere fertile la “pietra angolare” deve anche essere quella “scartata”, non il centro dell’universo, al servizio degli altri, non al vertice di una gerarchia di asserviti. Il risultato fu dunque che Peter creò sterilità, vuoto e acre desolazione intorno a sé dopo un’ingannevole vita da ombelico del mondo. Peter voleva tanti affetti con sé per affrontare la morte. Ma evidentemente non conosceva la fine di “Everyman”, “Ognuno”, il personaggio del tardo-medievale morality play inglese, che al momento del suo trapasso cercava vanamente qualcuno o qualcosa, amanti, amici, familiari, denaro, che lo accompagnasse nell’aldilà dimenticando che sulla barca di Caronte c’è un solo posto e che, come diceva la nonna di papa Francesco, «il sudario non ha tasche». Peter è il protagonista del dramma norvegese di Arne Lygre Uomo senza meta allestito sul palco del Teatro Argentina di Roma all’interno dell’anomala e straniante stagione estiva post-covid “Verso il ritorno” e presentato come un’anteprima – prova aperta, in realtà già un prototipo perfetto e pronto al debutto il prossimo ottobre. A curarne la regia di questa versione italiana, che ha avuto un solo precedente nel 2009 sui palcoscenici italiani, Giacomo Bisordi, giovane all’anagrafe ma maturo nella pratica, che si è fatto le ossa con due imponenti maestri quali Lavia e Popolizio, da essi ha tratto il meglio e ha sviluppato una sensibilità e una lucidità scenica tali da imporlo non più come promessa ma come splendida realtà del teatro nostrano.

“Alienazione” è il filo conduttore di questa tragica microsaga familiare venata di farsesco in cui tutti i personaggi, non a caso anonimi (Fratello, Sorella, Moglie, Figlia, Proprietario/ Assistente), sono alieni, altri da sé, figure meramente funzionali allo scopo del protagonista unico ad avere il crisma del nome; sono una sorta di replicanti, come piace evidenziare al regista che non nasconde la sua giovanile infatuazione per R.U.R., il dramma distopico del ceco Karel Capek in cui per la prima volta compare il termine robot, inventato derivandolo dalla parola ceca robota, “lavoro”. In effetti tutti lavorano per Peter in questa storia che vuole per un lungo tratto ingannare e confondere lo spettatore perché tutti non sono quello che sembrano e dicono di essere, ma interpretano la parte di Fratello, Moglie, Figlia ecc. in quanto pagati profumatamente dallo stesso Peter per recitare, finché lui è in vita, quel ruolo assegnatogli, insomma sono degli estranei prezzolati per fare i parenti. Ma a questa desolante agnizione ci si arriva con un progressivo disorientamento così come solo in seguito traspare impietosamente la solitudine assoluta del protagonista, dell’uomo senza meta: «Il titolo originale norvegese – spiega Bisordi – sarebbe in effetti “Uomo senza scopo”, un individuo smarrito». Un Adamo dopo il peccato originale, viene da pensare, che si nasconde a Dio e quindi al proprio vero io. Ma al di là di questa suggestiva evocazione biblica c’è invece, secondo il regista, una più esplicita iniziale citazione evangelica: «Questa storia è in pratica una parabola perché si apre con un clamoroso riferimento al Vangelo secondo Matteo in cui si parla di Pietro e della prima pietra su cui edificare la chiesa».

La parabola di Peter è però piatta, arida e autoreferenziale. È un grande imprenditore che decide di investire tutte le sue fortune per costruire una città ex novo su un meraviglioso e incontaminato fiordo norvegese. E qui in filigrana appaiono sullo sfondo le speculazioni capitalistiche, liberiste, affaristiche e la totale insensibilità ecologista. Sembrerebbe comunque un visionario perché immagina qualcosa che ancora non c’è, ma il suo orizzonte è unicamente egocentrico. Poi c’è un salto temporale di 30 anni, Peter è in fin di vita attorniato dai 'finti' parenti in una sorta di veglia funebre e dopo la sua morte si sgretola definitivamente il castello di menzogne, finzioni e infingimenti, senza lasciare però alcuna libertà né identità a chi ha passato una vita a servire Mammona e a ingannare se stesso: «Non sei nessuno!» è l’epigrammatica ed emblematica battuta finale. Altrettanta aridità e asciuttezza attraversa volutamente tutto il testo costruito con frasi secche e lapidarie in cui lessicalmente e concettualmente abbonda l’uso dei possessivi e svela un’umanità comprabile e reificabile. Uno spettacolo di un’ora e venti che dimostra come il teatro, quando è nelle mani di un regista abile a ribaltare il limite in invenzione, possa vincere le asfittiche norme anti-covid che inibiscono ogni contatto. La vastità del palco completamente spoglio dell’Argentina è saggiamente sfruttata e conquistata nella sua doppia dimensione verticale e orizzontale; gli elementi scenografici, dalle grandi pedane agli oggetti, sempre duttili e polisemici; solo il disegno luci appare allo stato attuale della messinscena approssimativo, mentre matura e letteralmente impeccabile la prova degli attori tutti (Francesco Colella, Aldo Ottobrino, Monica Piseddu, Anna Chiara Colombo, Camilla Semino Favro e Giuseppe Sartori). E dire che sulla carta sarebbe una di quelle cupe e deprimenti storie scandinave difficili da digerire in una notte di mezz’estate per animi già appesantiti da angosce sanitarie. Ma non è così, l’effetto finale è invece paradossalmente latore di speranza, come bene intuisce Giacomo Bisordi: «Questo dramma sembra senza una via d’uscita e non offrire soluzioni, ma forse può lasciare uno spiraglio, ovvero la voglia di fare un figliolo, di procreare, di dare vita e ti costringe a pensare al valore autentico della famiglia».