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Neuroscienze. Se il cervello muove la mente del vicino

Andrea Vaccaro sabato 24 agosto 2019

Dalle onde cerebrali per comandare oggetti attraverso supporti digitali, al loro impiego per comunicare e guidare altri individui. Nuovi esperimenti dimostrano che è possibile. Siamo in piena Neuro Age «Come fare cose con le parole» era la questione di punta ai tempi della filosofia del linguaggio (si veda J. Austin, How to do things with words del 1962). La questione del tempo presente, invece, è: come fare cose con i pensieri. Breve elenco di ciò che è già possibile “fare” con la mente, per stupire un po’ chi, oggi, non è molto familiare con la BCI (interfaccia cervello-computer) e stupire, domani, i posteri di quanto fossimo primitivi, in questo ambito, alla fine degli anni Dieci di questo nuovo secolo.

Con la sola mente (più una fascetta intorno alla testa, un Eeg portatile e un trasduttore di segnale) oggi si può: accendere luci, abbassare rotolanti e simili comodità domotiche; cambiare canale tv; far decollare e guidare in volo droni (la Darpa del Pentagono è a livello di jet in formazione, ma è un caso a parte); fabbricare con la stampante 3D; produrre musica con l’Encephalophone, dipingere, modificare la trame di certi film e, poi, comandare una sterminata serie di giochi, come l’antesignano MindBall (una sorta di subbuteo mentale, ora anche in formato video), o Mindflex con cui si eleva una pallina all’interno di una colonna trasparente, o Star Wars Force Trainer, per psicoagire sostenuti dalla voce di Yoda: «la forza sia con te!». Un gioco da ragazzi in tutti i sensi, basato sulla frequenza delle onde cerebrali corrispondente ai diversi gradi di concentrazione. Utile anche per aumentare consapevolezza e dominio sui propri stati cognitivi.

E quando il segnale elettrico del cervello è “catturato”, puoi commutarlo in ogni tipo di comando e iniziare a giocare. Senza muovere un dito. Da qualche mese, tuttavia, si è scoperto che la “forza mentale” non agisce “solo” su oggetti, ma anche su qualcosa di più delicato, cioè i cervelli altrui, cosicché la BCI si evolve in BBI (interfaccia brain-to-brain). In un esperimento del febbraio 2019, alla cinese Zhejiang University, il segnale cerebrale umano “trasdotto” ha attivato aree del cervello di un topolino in modo da farlo muovere (avanzare, fermarsi, girare a destra...) fino all’uscita dal labirinto. Al Kaist (Sud Corea) hanno similmente “psicoguidato” una tartaruga, senza peraltro invadere di elettrodi il cervello del rettile.

Andrea Stocco all’Università di Washington, invece, il dito lo ha mosso, però come una specie di tic incontrollato, per roteare il mattoncino di Tetris nella direzione giusta, solo che, con la parte bassa dello schermo coperta, non poteva sapere quale propriamente fosse la direzione giusta: l’’hanno “comunicata” direttamente al suo cervello le menti dei colleghi, per così dire, «a sua insaputa» (Brain-Net, “Scientific Reports”, aprile 2019). Mettersi nei panni (letteralmente: nella testa) degli altri sta assumendo significati inediti in questa strana Neuro Age. E non tutti ne sono lieti, come quegli studenti che, per esperimento, si sono visti mettere sulla testa, a mo’ di copriorecchie per bambini, un cerchietto con orecchie da gatto, che stanno ben dritte quando si è concentrati e si afflosciano nella distrazione.

Qualcuno, tra il serio e il faceto, propone di sperimentarlo nei corsi di aggiornamento, durante le omelie domenicali, nelle aule parlamentari, con un’unica missione: liberare la mente dal burqa (Hannes Sjöblad). Da ogni incursione in questi territori, la neuroetica se ne torna con carnieri di domande stracolmi: quanto è legittimo “intrufolarsi” nella mente altrui? Compie giuridicamente azioni colui che muove oggetti con il pensiero? Dirigere, a comando cerebrale, parti del corpo di un’altra persona a cosa può portare? Il questionario è talmente lungo da indurre a pensare che, oltre a una neuroetica (e neurodiritto) che insegua una domanda alla volta, sia opportuno guardare anche a una neuroteologia, che cerchi di decifrare il fenomeno nel suo complesso. È curioso – e un po’ deludente – che quando si parla di neuroetica (oppure di roboetica), l’accento cada sull’etica alle prese con le nuove questioni poste dalla tecnologia, mentre per la neuroteologia, finora, l’accento è caduto sulla prima parte dell’espressione, indicando gli studi sui correlati neurali di fede, meditazione, estasi.

E, sì che il terreno sembrerebbe propizio per la teologia (si pensi solo alla “noodinamica” di Teilhard de Chardin che aumenta vieppiù «la tinta psichica della Terra»), nonché per una filosofia della mente non meramente fisicalista. Per tutte le attività e i neurogames sopraelencati è infatti basilare il controllo e la modulazione volontaria di determinate onde cerebrali (alla portata di chiunque, con un minimo di esercizio nel neurofeedback). E questa è una sfida interessante al “paradigma Libet” – sul quale ci ha aggiornato dettagliatamente Andrea Lavazza su queste colonne il 10 luglio scorso –, che gli ipermaterialisti semplificano nello slogan: «il cervello agisce, la coscienza s’illude soltanto di farlo». Nel nostro caso non si tratta più di verificare al fotofinish, per così dire, lo sprint tra cervello e coscienza, per chi arriva prima a comandare un arto.

Qui è il cervello stesso “la parte comandata”, e non è del tutto agevole riuscire a descrivere una tale dinamica ricorsiva senza ricorrere, quantomeno, a uno strano anello di causalità tra cervello e coscienza, quella coscienza che gli epigoni di Libet vorrebbero escludere dal discorso o ridurre a epifenomeno. È da aspettarsi che futuri esperimenti, con tecnologia più avanzata, facciano chiarezza anche su questo punto. Esperimenti tecnoscientifici ideati e diretti, naturalmente, dal cervello con le sue onde. E, forse, dalla coscienza.