Frontiere. Se i sauditi riscoprono la loro cultura preislamica
La città di Hegra, primo sito saudita Patrimonio dell’umanità Unesco
Le tribù che abitano la regione di Al Ula, nel deserto nordoccidentale dell’Arabia Saudita, raccontano che nel corso degli anni, in occasione dei loro picnic nelle oasi e nelle valli costellate di imponenti formazioni di arenaria dalle sagome suggestive, erano soliti imbattersi in statue di pietra e misteriosi idoli antropomorfi. Quell’area, d’altra parte, aveva una fama sinistra, a causa di un’antica maledizione risalente addirittura ai tempi del Corano, in cui si narra come Allah si fosse adirato verso gli abitanti «arroganti e corrotti» di Al Ula che, anche di fronte al prodigio di una roccia trasformata in cammella, non avevano voluto credere al Dio unico e avevano ammazzato l’animale. Nel corso dei secoli, le popolazioni locali hanno creduto di sentire ancora, di tanto in tanto, il lamento del cucciolo di quella cammella che cercava invano la madre. Poco importa se a far risuonare quel pianto sconsolato fosse in realtà il vento che soffiava nelle gole rosse del deserto. Il punto è che davvero, fino a oggi, la fama della maledizione, incoraggiata dalle autorità religiose wahhabite assolutamente ostili al disvelamento di un passato preislamico “pagano”, aveva mantenuto chiuso e sconosciuto ai più questo vastissimo sito archeologico 400 chilometri a nord di Medina. Solo pochissimi studiosi locali, con in testa Abdulrahman Alsuhaibani dell’università King Saud di Riyadh, avevano testardamente provato ad alzare il velo su quello che ritenevano un autentico scrigno di tesori a cielo aperto risalenti a diverse civiltà antiche, tra le quali alcune, come il regno di Dadan, la cui storia era rimasta sepolta sotto la sabbia per millenni. Poi, nel 2017, Mohammed bin Salman, lo spregiudicato ere- de al trono saudita tristemente noto per l’attitudine a sbarazzarsi dei suoi oppositori – giornalisti, come quel Jamal Khashoggi assassinato due anni fa nel consolato saudita di Istanbul, ma anche parenti stretti sospettati di insidiare le sue ambizioni di potere – aveva guidato una dune buggy proprio intorno al sito. E aveva realizzato l’enorme potenziale economico di un’area dall’incredibile valore culturale e naturalistico. Perfetta per rientrare nel suo piano “Vision 2030” volto a immaginare una nuova Arabia Saudita smarcata dalla sudditanza al petrolio.
La valorizzazione del patrimonio preislamico della regione avrebbe avuto numerosi effetti positivi: creare lavoro localmente e, allo stesso tempo, intercettare i flussi turistici internazionali. Detto, fatto: lo scortrendy so settembre il regno ha aperto le porte ai visitatori stranieri, concedendo visti a cittadini di 49 nazionalità e proponendosi per la prima volta non più solo come la meta imprescindibile per i pellegrini musulmani in visita ai luoghi santi dell’islam ma anche come destinazione, esotica e insieme al punto giusto, sulle rotte globali. In questo progetto la valle di Al Ula, 23 mila chilometri quadrati di deserti montagnosi e lussureggianti oasi in cui si producono datteri di qualità pregiata, ha un ruolo di spicco. Qui sorge la città di Hegra, primo sito saudita Patrimonio Unesco, considerata la “Petra d’Arabia”: costituiva infatti il principale centro meridionale del regno dei Nabatei che la fondarono nel sesto secolo avanti Cristo, prima di diventare, secondo alcune ricerche, l’avamposto più a sud dell’impero romano. Tappa importante sulla via dell’incenso tra l’India e l’Egitto, custodisce ancora 132 tombe dalle elaborate facciate ritagliate ne gli affioramenti di arenaria. Ma il sito di Al Ula, che prevede di aprire ai turisti stranieri a ottobre, passata l’emergenza coronavirus, include anche Dadan, fiorente capitale del misterioso regno dei Lihyaniti prosperato nel primo millennio a.C., e Jabal Ikmah, nota anche come la “biblioteca lihyanita” per le centinaia di iscrizioni rupestri che promettono di offrire preziose informazioni su usi e credenze delle antiche civiltà autoctone. E ancora Qaryat Al Faw, capitale del regno Kindah, ricca di templi che hanno conservato statue e maschere funebri, ma anche l’antica cittadella di Al Dirah nelle cui case di fango le tribù locali hanno abitato dal XII secolo fino a quarant’anni fa. In questa regione, punteggiata dalle stazioni dell’ottomana ferrovia dell’Hejaz che correva da Damasco a Medina, il passato e il presente mantengono, nonostante i tentativi di ignorarlo, un legame ancora vivo.
Che oggi comincia a rinsaldarsi. «Nella Penisola arabica abbiamo antiche civiltà che non sono inferiori a quelle della Mesopotamia, del Levante e del-l’Egitto: dovremmo essere orgogliosi della nostra storia e stiamo facendola conoscere alla gente», spiega Alsuhaibani, che oggi fa parte della Commissione reale istituita ad hoc per rilanciare l’area. Con tanto di investimenti massicci e progetti da record, come la nuovissima sala concerti in mezzo al deserto inaugurata durante la seconda edizione del festival internazionale di arte e musica di Tantura (che ha ospitato anche Andrea Bocelli): un parallelepipedo interamente ricoperto di specchi che riflettono lo scenario naturale circostante, già entrato nel Guinness dei primati. L’operazione di Mohammed bin Salman rientra evidentemente nella più ampia strategia per accreditarsi come principe moderno e riformatore di fronte all’Occidente e fargli chiudere l’ennesimo occhio sulle violazioni dei diritti all’interno del regno. Una strategia di soft diplomacy dai risvolti molto pragmatici, come dimostra l’accordo da 20 miliardi di dollari con la Francia che ha portato schiere di archeologi d’Oltralpe – insieme ai colleghi tedeschi e britannici – tra le sabbie del deserto arabico, per la prima volta liberi di scandagliarle.
Nel piano dell’erede al trono ha un posto speciale Neom, la mega città tecnologica sul Mar Rosso con taxi volanti, pioggia a comando e licenza di bere alcolici. Un progetto da 500 miliardi su cui, al solito, il principe non tollera obiezioni, come dimostra l’assassinio da parte delle forze speciali, ad aprile, dell’attivista Abdul Rahim al– Huwaiti, che si batteva contro lo sfratto di 20 mila beduini della sua tribù proprio nel sito dove sorgerà Neom. Se una modernizzazione solo di facciata non cambierà certo in meglio la vita dei sauditi, resta però il fatto che la riscoperta della loro ricchissima eredità culturale potrà invece mettere in discussione un’identità fino a oggi legata in modo esclusivo a un islam rigoroso, per riappropriarsi di una storia fatta di pluralità e convivenza. Tra le iscrizioni rinvenute ad Al Ula, l’archeologa Leila Nehmé ne ha scoperta una che menziona Al– Ilah, Dio, datata 548 d. C.: testimonianza di una locale comunità cristiana, che potrebbe anche documentare la derivazione della scrittura araba dall’aramaico nabateo. Gli studi sono solo all’inizio: sotto le sabbie rosse dell’Hejaz si celano reperti dalle potenziali ricadute culturali immense.