Arte e tecnologia. Se il curatore della mostra è un “robot”
È notizia di questi giorni la nomina di un curatore in formato AI per la Biennale di Bucarest del 2022, che così ha trovato modo di uscire dall’anonimato. Dovrei, ma non posso, dire che la notizia è di quelle epocali, dopo la quale nulla sarà come prima, frase molto di moda in questi tempi di profeti di carta. La Biennale, neanche dirlo, si svolgerà in modalità virtuale. La scelta, ricaduta su un programma sviluppato dallo studio viennese Spinnwerk, cerca di forzare il tema della novità a ogni costo, più che generare una riflessione critica su derive tecnologiche e universi cognitivi. La notizia non è in alcun modo autenticamente trasgressiva. Traduzione di tutto il politicamente corretto che si può raccogliere oggi intorno ai temi caldi della contemporaneità. Si preconizza, con un anticipo che a mio parere verrà smentito dai fatti, una società del non contatto con la sua nuova religione dell’asepsi assoluta e che nell’illusione di evitare virus e malattie si consegna con gioia alla morte in vita? Ecco la biennale virtuale, trionfo culturale e cultuale del social distancing. Si forza il mercato delle tecnologie coltivando visioni profondamente distopiche, antiumane e in definitiva irrealizzabili? Ecco il curatore virtuale, epitome antropomorfa di una nuova intellighenzia superevoluta. Un crogiuolo di banalità presentate come rivoluzione. La nuova bigotteria laica funziona così. Si spaccia per alternativa consacrando il luogo comune con le fanfare di una comunicazione altisonante e distorta. Ho già ampiamente illustrato la mia passione per le possibilità degli strumenti digitali e tecnologici, e come una parte del mio lavoro sia indirizzata in quel senso. Ma il robot curatore non ha a che fare con questo. Il nome scelto per l’intellettuale robotizzato è Jarvis, il maggiordomo AI di Iron Man.
Attingere ad un mondo narrativo da fumetto è la prima autodichiarazione di adesione a un livello di realtà posticcio, artificioso, molto distante dalla carne dell’esistenza che grazie al cielo non ci abbandonerà mai. Un livello di insignificanza sostanziale su cui si tenta di schiacciare l’arte e il senso critico, visti unicamente come territorio di sperimentazione di nuove tecniche per il controllo sociale. Un secondo aspetto è dato dal ruolo del personaggio Jarvis. Maggiordomo. Rispettabilissima categoria. Ciò non toglie che il maggiordomo rappresenta qualcuno al servizio di qualcun altro. E si può star certi che l’autonomia decisionale di Jarvis, pari a zero e rivendicata come innovativa, sarà al servizio del consolidamento di un mercato acefalo, non certo dell’uomo, dell’arte, del pensiero. Secondo le dichiarazioni roboanti e allucinatorie di ingegneri informatici poco interessati a qualunque forma di umanesimo, anche embrionale, Jarvis verra “istruito” attraverso il deep learning, su database di musei e gallerie di tutto il mondo, per essere pronto a fare le “sue” scelte. Che naturalmente saranno prive di outsider, da sempre attori primari della storia dell’arte, non potendo Jarvis indagare al di fuori dei database che qualcun altro gli fornisce. Il fronte curatoriale, anche se negli ultimi tempi ha preso la mano a molte primedonne che vi hanno scaricato le proprie malriposte velleità artistiche, è un fronte strategico. La critica ha nel suo dna più autentico la sete di scoperta, di indagine, il controcanto rispetto al consueto attuale, che Jarvis bellamente e inevitabilmente stupido, eviterà con cura, non per incapacità ma per impossibilità manifesta. Deep learning è un termine estremamente ambiguo. Non esiste una profondità della intelligenza artificiale. La sua complessità si dispiega su un piano orizzontale, cui sono inaccessibili dimensioni che sono la intima essenza di coscienza e arte e dell’approccio autenticamente umanistico alle scienze.
La AI raggiunge grandi complessità. Prive di profondità. Al deep learning, per la AI, io sostituirei il termine wide learning. Il titolo del concept della Biennale del maggiordomo robotico sarà “ Farewell to research” e questo potrebbe far sperare in una provocazione critica. Ma non è detto. “Addio alla ricerca” potrebbe essere la mimesi consapevole di ciò che nell’arte e in altri campi sta avvenendo da tempo, con il beneplacito passivo dei suoi attori. La sistematica banalizzazione a oggetto di consumo, prodromo di una sostanziale neutralizzazione del suo potere destabilizzante e di stimolo alla riflessione. “ Farewell to research” forse, è solo la constatazione dello stato di fatto. Se la scelta di Jarvis come curatore è una boutade provocatoria per stimolare una ulteriore riflessione, sarà un altro tema su cui elaborare valanghe di elucubrazioni senza seguito. Se invece è volontà di fare sistema con un approccio insensato come la curatorialità affidata al software, allora sarà necessario che chi pone al centro l’uomo, si dia da fare. Senza rifiutare la tecnologia, ma evitando di coltivare distopie assurde come la AI al potere. Perché in questo caso non si apre al mondo fantasioso di replicanti superiori e autonomi, di per sé inesistente. Si stende invece il tappeto rosso a nuove oligarchie che in quella AI hanno un maggiordomo silente, acquiescente, fondamentalmente stupido proprio come Jarvis.