Agorà

Eterno dibattito. Da Orazio a Montaigne questa scuola da rifare

Roberto Carnero lunedì 24 agosto 2015
Ultimamente gli insegnanti si sono lamentati molto. L’iter che ha portato al varo della legge sulla "Buona scuola" ha infatti messo a dura prova la loro pazienza: non tanto per i contenuti della riforma in sé, discutibili ma non tutti negativi, quanto per la sordità del governo alla richiesta di un confronto aperto, attraverso le rappresentanze legittimate a condurlo, con chi nella scuola lavora. Da qui le proteste, i cortei, gli scioperi. Questa è la cronaca degli ultimi mesi, ma non bisogna pensare che gli insegnanti si lamentino solo da ieri. Possiamo anzi dire che è da tanto tempo che non mancano loro le ragioni per farlo: stipendi bassi, lunghi anni di precariato prima dell’ingresso in ruolo, studenti svogliati e maleducati, famiglie poco propense a un’alleanza educativa con la scuola, decadimento della qualità della didattica concretamente praticabile, ecc. L’insegnante e scrittrice Paola Mastrocola lamenta da tanti anni nei suoi libri (a partire dal primo, La gallina volante, uscito 15 anni fa) molte di queste cose. Ma anche risalendo indietro nel tempo, alle origini della scuola unitaria, vediamo che i motivi di disagio e di protesta erano numerosi. Gli ambienti erano malsani (il problema dell’edilizia scolastica fatiscente non è dunque nuovo) e le classi molto numerose: 54 sono gli allievi del maestro Perboni in Cuore (1886) di Edmondo De Amicis, altro che "classi-pollaio"! Spesso maestri e maestre avevano genitori a carico, il che li spingeva a integrare il misero salario con straordinari (insegnando, ad esempio, nelle scuole serali agli adulti, come fa lo stesso Perboni) e lezioni private: la "maestrina dalla penna rossa" in Cuore mantiene con il proprio lavoro la madre e suo fratello. Altro punctum dolens era quello degli stipendi, spesso più bassi di quelli degli inservienti. Anche le pensioni erano basse: così i maestri (come quello del padre di Enrico Bottini e quello di un’altra opera deamicisiana del 1890, Romanzo d’un maestro, che insegna da 48 anni!) sono portati a rimanere in servizio fino a tarda età, spesso, letteralmente, a morire in cattedra. Destò molto scalpore il caso della maestra Italia Donati, che il 1° giugno 1886 si suicidò in seguito alle calunnie che avevano colpito la sua onorabilità: a quella tragica vicenda si ispirerà Matilde Serao per il suo racconto Come muoiono le maestre (1886). Per questi e altri motivi, sullo sfondo delle carriere dei docenti, si staglia uno scenario di tristezza e di desolazione. Considerando tali situazioni, si comprende come il lamento dell’insegnante sia potuto assurgere, nei libri, a un vero e proprio topos letterario. E a esso è ora dedicato un volume, intitolato appunto Il lamento dell’insegnante, dello scrittore e docente Alessandro Banda (Guanda, pp. 170, euro 15,50, in libreria dal 27 agosto). Che inizia con il lamento autobiografico dell’autore sul contesto scolastico in cui da vent’anni si trova a operare: alunni splendidi (anzi, alunne splendide, perché si tratta di un liceo delle scienze umane, a netta predominanza femminile), ma colleghe terribili (anche qui al femminile perché, si sa, l’insegnamento è ormai una professione praticamente riservata alle donne), prive di ogni senso di solidarietà di corpo. Per proseguire poi con «una breve e del tutto soggettiva storia del lamento che la classe docente intona da millenni». Infatti il lungo, vivace, interessantissimo excursus tracciato dal professor Banda risale addirittura a Orbilio Pupillo, il manesco maestro di Orazio (plagosus, lo definisce il poeta in latino, da plaga, "ferita"), perennemente insoddisfatto dei suoi allievi e ancor più dai loro troppi ambiziosi genitori, come altrettanto insoddisfatti saranno gli insegnanti della scuola tecnica di Lubecca frequentata da Hanno Buddenbrook. «Quegli studenti tedeschi di fine Ottocento – scrive Banda – sapevano anche essere del tutto indisciplinati e irrispettosi, esattamente come quelli che, nella Cartagine del quarto secolo dopo Cristo, rendevano la vita impossibile ad Agostino, costringendolo al trasferimento». Giovenale brontolava per il fatto che un insegnante guadagnava in un anno quello che un atleta del circo guadagnava in un giorno: sostituendo "calciatore" ad "atleta del circo" l’osservazione è valida ancora oggi. Seneca e Petronio sostenevano che la scuola era slegata dalla vita, stesso appunto (millecinquecento anni dopo) di Rabelais e Montaigne. Rabelais pone come maestro di Gargantua un sofista che per insegnare al suo allievo l’alfabeto, da recitarsi a memoria anche al contrario, partendo dalla zeta, ci mise cinque anni e tre mesi, per poi passare alla lettura di inutili volumi intitolati Spartivento, Facidanno,Pataccone: precoce polemica contro i manuali scolastici. Montaigne, invece, nel lamentarsi della pedanteria di certi maestri del suo tempo, si esprimeva «per la vita contro la formalizzazione, per la libera creatività individuale contro una rigida regolamentazione precettistica, per la coltivazione delle singolarità contro l’appiattimento normativo unificante». Analoga denuncia, da Orazio a Shakespeare e a Molière, riguarda un tema oggi assai discusso, quello della valorizzazione del merito, che veniva, allora come ora, misconosciuto e trascurato. «Pare insomma – sintetizza Banda – che negli anni, anzi nei secoli e millenni, non muti nulla, o ben poco» e che la scuola sia una sorta di "foresta pietrificata" o, se preferite, una "selva oscura", che il suo libro ci aiuta però ad attraversare, in una serie di percorsi letterari per capire gli insegnanti di ieri e quelli di oggi. E soprattutto per sondare le ragioni a causa delle quali si sono lamentati e continuano - ahinoi - a farlo.