Agorà

Intervista. «Scrivere per il teatro è una scelta di libertà»

Alessandro Zaccuri lunedì 6 luglio 2015
Un mestiere di frontiera. Era così quando Shakespeare calcava le scene del Globe e così era ai tempi della Commedia dell’Arte, quando i canovacci passavano da capocomico a capocomico, subendo ogni volta aggiustamenti e adattamenti. «Le competenze del teatro confinano naturalmente l’una con l’altra, l’osmosi è inevitabile», ammette Renato Gabrielli, drammaturgo apprezzato, docente alla “Paolo Grassi” di Milano e ora autore del rapido e puntuale Scrivere per il teatro (Carocci, pagine 122, euro 12,00). Che non pretende di essere un manuale, ma è ricco di consigli pratici, spunti suggestivi e, più che altro, notazioni legate al presente, se non addirittura al futuro prossimo. «Oggi – spiega Gabrielli – un drammaturgo deve necessariamente confrontarsi con le tecniche della sceneggiatura cinematografica e televisiva. Per questioni di scrittura, certo, ma anche perché di solo teatro è difficile vivere, presto o tardi viene il momento in cui ci si deve mettere alla prova anche per lo schermo».La parentela con la letteratura è sempre più lontana, dunque?«La possibilità dell’autonomia artistica del testo rimane, ma anche in quel caso non si può fare a meno di misurarsi con le esigenze della messa in scena. Da questo punto di vista è particolarmente interessante la figura del Dramaturg, che ha svolto una funzione fondativa nella storia dei teatri stabili, specie in Germania. Anche se in Italia non disponiamo del cosiddetto “Dramaturg d’ufficio”, che garantisce la coerenza del cartellone, non mancano casi anche molto influenti di “Dramaturg di scena”, e cioè professionisti che lavorano alla riscrittura del testo e all’assemblamento di materiali diversi, improvvisazioni comprese, in vista della rappresentazione».Che fine hanno fatto le famose unità di azione, tempo e luogo?«Hanno subìto una trasformazione radicale, e non solo perché a teatro capita spesso di assistere a spettacoli che intrecciano una molteplicità di trame. La libertà maggiore, a mio avviso, riguarda tempo e luogo, in una continua differenziazione delle scelte drammaturgiche che, in sostanza, non fa altro che sollecitare la responsabilità dell’autore. Ormai lo spettacolo si espande anche al di fuori del teatro, negli ambienti e con le misure più diverse. Una performance può durare pochi minuti o estendersi per l’intera giornata, per esempio. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, il pubblico apprezza sempre di più questo genere di soluzioni, a patto che abbiano una loro riconoscibile necessità».In che senso?«Nel senso che tutto si può fare, ma tutto deve avere un motivo. Se posso riferirmi a un’esperienza personale, una decina di anni fa ho avuto modo di rappresentare al Fringe Festival di Edimburgo l’adattamento di un mio testo che, in quell’allestimento, si svolgeva interamente all’interno di un’automobile. Mobile Thriller prevedeva tre spettatori per volta, quanti potevano essere ospitati sul sedile posteriore, ma questo non era un capriccio: era semplicemente l’evoluzione di un elemento già presente nel copione di partenza, Qualcosa trilla».A queste condizioni è difficile fissare regole precise... «Attualmente il teatro occupa una posizione marginale in termini di mercato, ma proprio per questo può sottrarsi alla rigidità di alcune convenzioni che, al contrario, sono ormai consolidate al cinema o in tv. Intendo dire che, almeno in Italia, uno sceneggiatore è spesso e legittimamente preoccupato di mettere a punto un prodotto che funzioni bene, senza sbavature o complessità eccessive. Dichiarato o no, c’è comunque uno schema al quale attenersi. Il drammaturgo può permettersi di sperimentare di più, di osare nei confronti dello spettatore. Ma deve farlo con onestà, senza rifugiarsi in facili soluzioni ad effetto».