Filologia. Scritture, prima e dopo il “canone”
La parola “Bibbia” – sostantivo singolare derivato dal latino Biblia – designa quelli che in greco erano chiamati “i libri” (ta biblia), ossia le “Scritture” (graphai) sacre o, semplicemente, la “Scrittura” (graphe). Questi libri – come tutte le opere letterarie della classicità – non ci sono pervenuti nei testi originali, ma in copie che, direttamente o indirettamente, li “testimoniano”, ossia ne documentano l’esistenza, secondo un grado di attendibilità e accuratezza stabilito da un complesso e delicato lavoro critico di analisi e comparazione tra i vari esemplari esistenti di un singolo testo o dell’insieme dei testi biblici. Per la prima parte della Bibbia – l’Antico Testamento –, il testo ebraico (e aramaico) si fonda sull’insieme dei codici altomedioevali che costituiscono il Testo masoretico: così chiamato perché, tra il VI e l’XI secolo, un gruppo di scribi detti masoreti – a cominciare da quelli della famiglia ben Asher, attiva a Tiberiade dalla seconda metà dell’VIII fino alla prima metà del X secolo – aveva raccolto la tradizione manoscritta precedente e proseguito con grande scrupolo e meticolosità nell’opera di conservazione e trasmissione del testo, corredandolo di un prezioso apparato di informazioni e note (“masora”) e avendo inoltre cura di aggiungere ai soli caratteri consonantici fissati fin dai primi secoli dell’era cristiana una serie di punti e linee indispensabili per la vocalizzazione, ossia per stabilire la pronuncia del testo. Per la seconda parte della Bibbia – il Nuovo Testamento –, il testo greco stabilito è anch’esso frutto di un lungo lavoro di ricerca, ricostruzione e collazione di “testimoni” antichi e affidabili: papiri greci (tra cui quelli delle importanti collezioni Chester Beatty e Bodmer), manoscritti greci in maiuscola (a cominciare dai codici Sinaitico, Alessandrino e Vaticano) e una nutrita famiglia di manoscritti neotestamentari in minuscola, completi o parziali, estesi sull’arco di vari secoli [...].Le lingue originali degli scritti biblici sono, per l’Antico Testamento, l’ebraico e l’aramaico; per il Nuovo Testamento, il greco. I primi israeliti cominciano a parlare in ebraico – o «in giudaico», come più volte ci si esprime (2Re 18,26.28; 2Cr 32,18; Ne 13,24;Is 36,11.13) – dopo il loro ingresso in Canaan, e per questo la lingua ebraica viene anche chiamata «lingua di Canaan» (Is 19,18), una delle diverse forme del semitico nord-occidentale. Dopo l’epoca dell’esilio babilonese (VI secolo a.C.), l’aramaico inizia ad affermarsi e, nella Palestina del I secolo, è ormai la lingua corrente, parlata anche da Gesù. Per quanto riguarda la lingua greca, si utilizza il greco comune dell’ellenismo, la koinè, largamente diffusa in quasi tutta l’area del Mediterraneo. Il greco usato dagli scrittori neotestamentari presenta tuttavia una sua fisionomia composita, sia per il livello culturale dei singoli autori e le peculiarità stilistiche di ciascuno di essi, sia per l’evoluzione stessa della lingua nell’arco di tempo in cui si estende la redazione degli scritti del Nuovo Testamento. Inoltre, la presenza di numerosi semitismi, a volte anche la traduzione di alcuni luoghi o termini greci “in ebraico” (hebraisti), ma soprattutto il sostrato stesso di locuzioni e costruzioni grammaticali e sintattiche attestano il marcato influsso dell’ebraico e dell’aramaico sul greco del Nuovo Testamento: influsso che si inserisce, del resto, nel più ampio quadro dell’influenza esercitata dalle lingue semitiche e degli stretti rapporti esistenti tra Antico e Nuovo Testamento.Nel corso del tempo, i libri biblici sono stati raccolti in un elenco ufficiale e definitivo detto “canone”. Tali libri, proprio in virtù del loro status canonico, erano e sono infatti assunti come normativi dalle varie confessioni religiose. Prima però di arrivare al canone che ha configurato la struttura e la sequenza definitiva dei libri all’interno della Bibbia, si è avuto un processo di ricostruzione della loro genesi letteraria estremamente accidentato, fatto di numerosi passaggi, dalle tradizioni orali alle testimonianze scritte. Attraverso lo studio e il confronto delle molteplici tradizioni testuali – alle quali ha dato uno straordinario apporto in tempi recenti la scoperta dei rotoli del Mar Morto rinvenuti a Qumran –, si è cercato (e si continua a cercare) di risalire alla forma più corretta, stabile e completa dei testi, individuarne l’iter di formazione e composizione, assieme alle motivazioni e all’epoca del loro inserimento nel canone.
Lungo questo percorso storico, al termine del quale si è giunti a fissare lo spartiacque tra ciò che doveva considerarsi ispirato – cioè espressione autentica della rivelazione divina e perciò, non solo assolutamente degno di fede, ma dotato del massimo grado di autorità – e ciò che, essendo stato escluso, non lo era, esiste una netta linea di demarcazione tra un “prima” e un “dopo”: la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. Da quel momento, nel giudaismo, la distinzione tra libri sacri e non diventa più chiara; dalla metà del II secolo d.C. la formazione del canone si avvia a conclusione e, sul finire del secolo, anche la lista canonica vera e propria, completa e definitiva, diventa norma vincolante per tutto il giudaismo. Un diverso (ma non meno travagliato) percorso, indipendente dal giudaismo, hanno seguito le Chiese cristiane nella formazione del loro canone. Nei primi tre secoli del cristianesimo, il concetto di canone era applicato a tutto quanto l’autorità della Chiesa considerava vincolante come “regola di verità”, “regola di fede” e “regola della Chiesa”. Soltanto, però, dalla seconda metà del IV secolo la normatività del canone è riferita ai libri della Bibbia come collezione “chiusa”. Pur essendoci stata, infatti, una decisiva tappa nella configurazione del canone già sul finire del II secolo – con il riconoscimento dei testi fondamentali (i quattro vangeli, tredici lettere di Paolo, Atti, 1 Giovanni e 1 Pietro) e quindi anche del loro valore paradigmatico come fonte normativa –, il canone vero e proprio verrà di fatto ufficializzato a partire dalla 39ª Lettera festale (367) di Atanasio d’Alessandria, dove per la prima volta si fa esplicito riferimento a tutti i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento «inclusi nel canone e accreditati come divini».
Il problema della formazione del canone non riguarda, perciò, i singoli scritti o le singole raccolte di scritti che già nel Nuovo Testamento erano considerati «Parola di Dio» (logos tou theou, 1Ts 2,13), «Scritture sacre» (hiera grammata, 2Tm 3,15) o «Scrittura» (graphe, 2Pt 3,16), e ai quali i Padri apostolici e gli apologeti del II secolo (Giustino, Teofilo d’Antiochia, Ireneo di Lione, Tertulliano, Taziano, Clemente Alessandrino, ecc.) attribuiranno un’autorità almeno pari a quella degli scritti dell’Antico Testamento. Il problema riguarda invece l’insieme degli scritti e i vari stadi attraverso i quali si è passati – influenzati via via da concezioni teologiche ed ecclesiastiche, ma anche da situazioni storiche ed esigenze pratiche diverse – prima di arrivare alla determinazione e alla chiusura definitiva del canone. Quanto questi passaggi siano stati complessi lo si deduce con evidenza dal tempo trascorso. Infatti, nonostante i pronunciamenti dei concili d’Ippona (393) e di Cartagine (397) – confermati da papa Innocenzo I nel 405 – e soprattutto, in età moderna, del Concilio di Firenze (4 febbraio 1442), si dovrà aspettare il Concilio di Trento per l’approvazione definitiva del canone (8 aprile 1546). Nella valutazione della canonicità dei singoli libri del Nuovo Testamento i criteri-guida erano stati, in linea di massima, i seguenti: la loro origine apostolica (dovevano cioè risalire all’autorità di un apostolo o ai primissimi tempi della Chiesa); la loro cattolicità (anche se indirizzati in origine alle Chiese locali, dovevano essere accessibili e validi per la Chiesa universale) e la loro ortodossia (conformità ai principi e agli insegnamenti stabiliti dal «deposito della fede»). Non sempre, tuttavia, questi criteri ispiratori erano intervenuti insieme e soprattutto in modo definitivo, inserendosi come ulteriori e spesso determinanti elementi di giudizio nel processo di formazione del canone il consolidato uso liturgico di un testo e la sua frequente utilizzazione nell’insegnamento; la tradizione ecclesiastica da cui aveva avuto origine e che aveva prodotto, non meno che l’opinione di vescovi e teologi influenti.
Sulla base di questi criteri-guida erano quindi esclusi dal canone tutti i libri considerati falsamente attribuiti agli apostoli, giudicati non autentici e sui quali comunque la Chiesa riteneva di non dover fondare la verità e l’autorità della propria dottrina. Un particolare rilievo assumono, in questo contesto, i numerosi scritti apocrifi che, per quanto molto letti individualmente, non saranno mai accolti nel canone. Per ragioni diverse, erano stati oggetto di numerose dispute, fino agli ultimi decenni del IV secolo, anche cinque delle lettere cattoliche (Giacomo, 2 Pietro, 2 e 3 Giovanni, Giuda) ed Ebrei. Perfino testi autorevoli e molto diffusi nella Chiesa antica, ma sprovvisti del requisito primario dell’apostolicità – come la Didachè o il Pastore di Erma – non entreranno a far parte del canone o verranno successivamente espunti.