Agorà

Scotellaro. La voce del Sud in un filo d'erba

Goffredo Fofi sabato 14 dicembre 2013
Morto appena trentenne, Rocco Scotellaro (Tricarico, 1923 – Portici, 1953) fu una meteora inattesa e straordinaria nella scena della cultura italiana del secondo dopoguerra, e incarnò senza volerlo il modello di quell’“intellettuale organico” teorizzato da Antonio Gramsci, ma altrettanto atteso dai Gobetti e dai Salvemini e dai rappresentanti del “cattolicesimo sociale” messo duramente alla prova del ventennio fascista. Fu infatti poeta e scrittore, inchiestatore e sociologo ma anche leader politico di base, sindaco socialista del suo paese, strenuo difensore dei diritti di una popolazione contadina sfruttata e oppressa, quella raccontata fervidamente da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli e dallo stesso Rocco in Contadini del Sud nelle sue sfaccettature più strane o bizzarre, contro il preconcetto di una figura unica e da presepe: l’infimo piccolo-borghese Mulieri in lotta contro uno Stato che si fa vivo soltanto per il tramite dell’imposizione d’imposte (e del servizio militare), il bufalaro degli stagni che conosce le sue bestie una per una e una per una dà loro un nome, il Chironna evangelico e il Di Grazia democristiano…Si legga, nell’ultimo numero di Lo Straniero, nel dossier su Scotellaro curato dal suo maggior studioso, Franco Vitelli, il piano del libro che Rocco mandò a Laterza nel giugno del ’53, insieme scientifico, politico e sotterraneamente poetico. «La cultura italiana sconosce la storia autonoma dei contadini», diceva, che pure hanno formato per secoli e formavano ancora la maggioranza della popolazione nazionale; sconosce «il loro più intimo comportamento culturale e religioso, colto nel suo formarsi o modificarsi presso il singolo protagonista». Dunque: «chi volesse assumere il singolo contadino come protagonista della sua storia, dovrebbe impostare la ricerca secondo la via più diretta dell’intervista e del racconto autobiografico». È impossibile, per chi ha conosciuto il Sud degli anni Cinquanta fuori dalle rigidità ideologiche dell'intellighenzia comunista (che, sia chiaro, non amò Scotellaro, e a cui il modello del giovane sindaco poeta non appartenente al suo schieramento dava molto fastidio), non collegare il nome di Scotellaro a quello di un altro Rocco, Mazzarone, pioniere della medicina sociale, cattolico, che di Scotellaro fu una sorta di saggio e determinato fratello maggiore, a quello già citato di Levi, che lo protesse introducendolo al mondo culturale più aperto e avvertito, e a quello di un altro grande, Manlio Rossi-Doria, geniale economista agrario tra gli artefici delle grandi riforme di quegli anni.Furono, questi quattro nomi, con i loro scritti e con le loro azioni, i punti di riferimento per un cambiamento sociale che si voleva tanto sensato quanto radicale, e che ebbe alle spalle, in una fitta rete di rapporti tra minoranze attive, partiti, sindacati, una sorta di amico e protettore quale Adriano Olivetti. Sono anche gli anni delle occupazioni delle terre, degli scioperi a rovescia dei disoccupati, dei sindacalisti socialisti ammazzati dalla mafia in Sicilia, di Angela Zucconi, dell’Unione lotta contro l’analfabetismo, di Danilo Dolci e del cinema di Vittorio De Seta… Anni fervidi di lotte e di pensiero nella convinzione che, conquistata la repubblica e la democrazia, bisognasse ora lottare per il riscatto dei proletari e per l’eguaglianza sociale senza dimenticare gli ultimi e gli umili nelle città come nelle campagne. La breve vita di Rocco Scotellaro si consumò nelle lotte in difesa dei “suoi” contadini, nell’esperienza di sindaco del suo paese che lo portò in carcere, come ha raccontato in quel denso capolavoro letterario incompiuto che è L’uva puttanella, nell’intenso e breve rapporto con Amelia Rosselli, negli studi a Portici accanto a Rossi-Doria, nell’invenzione e pratica di una scienza, la sociologia, osteggiata in Italia dai paralleli diktat di Croce e di Togliatti. Ma è bene non dimenticare che egli fu anche poeta, vero poeta, e che scrisse versi che sono rimasti a volte proverbiali. «Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema. / E la mia Patria è dove l’erba trema. / Un alito può trapiantare /il mio seme lontano».Di Rocco, Carlo Levi citava spesso un’affermazione che, nata casualmente, diventò secondo Levi una sua definizione, una sua scelta, la dichiarazione di un modo di essere e di pensare, una sorta di epigrafe per la sua vita e la sua opera: «Io sono uno degli altri». Come non collegarla al camusiano «Mi rivolto dunque siamo»? Gli anni sono gli stessi, e stessa è la temperie della rivolta e della speranza che muoveva, con “quelli che stanno in basso”, con le “classi subalterne” o “non egemoni”, gli intellettuali migliori, e soprattutto quelli che nascevano come Rocco dal loro stesso seno.Fu una lunga e meritoria, una sfaccettata battaglia quella per la difesa del mondo contadino e della sua cultura, anzi della sua “civiltà”, negata o vituperata dalla cultura borghese di destra come, spesso, anche da quella di sinistra, e di essa i quattro intellettuali militanti che ho ricordato che agirono soprattutto in Basilicata e che, escluso Rocco, ho ben conosciuto, furono i più attivi e convinti, i più lucidi protagonisti. Ma quel mondo doveva presto sparire, con il “miracolo economico”, con il grande fenomeno delle migrazioni interne verso il Nord, con l’arrivo della televisione e dell’automobile. Se ne rese conto anche Scotellaro, quando scrisse questi versi contraddittori e perfetti: «Ho perduto la schiavitù contadina. / Non mi farò più un bicchiere contento. / Ho perduto la mia libertà».