Non era stato facile accettare quello che gli stava capitando, ma alla fine Renato Sclarandi capì che quel sacrificio sarebbe stato promessa di un futuro migliore, anche se diverso da quello che aveva immaginato. Per questo la pallottola che un soldato tedesco gli sparò alle spalle 72 anni fa quella mattina del 22 aprile 1944 nel campo di prigionia di Hammerstein non fu del tutto inaspettata. Il sangue versato dal giovane sottotenente degli alpini divenne presto per i suoi compagni di prigionia il segno più evidente di una santità testimoniata in innumerevoli gesti e parole offerte durante i difficili otto mesi della deportazione.
Sorridente, dedito a un apostolato instancabile da mattina a sera, fiero portatore dell’identità dell’Azione Cattolica: così lo ricordavano tutti quelli che hanno vissuto assieme a lui gli otto mesi di prigionia prima a Przemyls, nel sud est della Polonia, e poi appunto nel campo dove avrebbe trovato la morte a 25 anni, Hammerstein, oggi Czarne nel voivodato polacco della Pomerania. E sui fatti attorno alla sua morte, anche grazie all’interessamento dello storico italiano Ettore Deodato, oggi la Commissione per il perseguimento dei crimini contro la nazione polacca vuole fare chiarezza e ha aperto un’inchiesta. Ma sarebbe fare un grave torto alla sua eredità voler ridurre la storia di Sclarandi all’episodio della morte violenta, anche se in realtà colpisce il fatto che egli fu ridotto al silenzio mentre portava delle ostie da consacrare nella cappella improvvisata in infermeria dove l’indomani si sarebbe celebrata un’Eucaristia e su quelle particole si sparse il suo sangue. Il progetto di vita di questo “martire” della furia nazista, infatti, ebbe sempre un respiro ampio, radicato com’era nella convinzione di dover partecipare in qualche modo nel nome del Vangelo alla costruzione di una società nuova in Italia. Nato il 30 gennaio 1919 a Torino, figlio di un dirigente della Lancia, aveva studiato dai Salesiani al liceo di Valsalice. Si era poi iscritto alla facoltà di Lettere, portando avanti anche l’impegno nella Gioventù di Azione Cattolica: era diventato presidente del gruppo “Rerum Novarum” nella parrocchia di San Bernardino, tra gli operai del quartiere di Borgo San Paolo, ed era un punto di riferimento per i giovani ai quali dedicava molto del suo tempo. Poi, nel dicembre 1941, arrivò la chiamata alle armi che però non interruppe il suo cammino di ricerca spirituale. Nel tempo, infatti, aveva maturato l’intenzione di fondare una società operaia e, come hanno raccontato e scritto in seguito i suoi compagni di prigionia, viveva ogni istante della propria esistenza come un passo verso questa meta, che si era acclarata anche grazie ai suoi due “maestri”: Carlo Carretto e Luigi Gedda. Nel suo diario Sclarandi descrive il 1943 come «un anno fondamentale per la mia vocazione, realizzata attraverso tre momenti ». I due incontri con Carretto ad Albenga e con Gedda a Civitavecchia, infatti, gli accesero il cuore sulla «vocazione operaia », mentre la terza tappa, la cattura, rappresentava il «collaudo» di questa chiamata, che passava dal Getsemani provato «personalmente nella sofferenza»: proprio al Getsemani avrebbe voluto dedicare la futura società operaia. E nel diario è custodita la testimonianza del lento fiorire di una spiritualità della sofferenza offerta a Dio per un progetto più grande: «È chiaro – scriveva Sclarandi – che qui pongo le fondamenta della mia opera per la santificazione della gioventù». In quelle pagine traspare la speranza di tornare a casa, di riabbracciare la madre, di realizzare i propri progetti, ma è evidente anche la crescente consapevolezza di trovarsi su un cammino dalla meta incerta. D’altra parte l’8 settembre 1943 a Pinerolo lui avrebbe potuto fuggire e invece scelse di restare accanto ai suoi soldati e seguirne il destino da deportati. Il 28 aprile 1946 Luigi Gedda intervenne alla commemorazione di Sclarandi nella parrocchia torinese di San Bernardino e così ricordò il giovane amico: «La sua figura di giovane di 25 anni si avvicina con grande nobiltà a quei giovani che, dal primo fondatore a Pier Giorgio Frassati, hanno dimostrato all’Italia quale dignità possa essere raggiunta da chi coltiva nella sua coscienza il richiamo profondo del cristianesimo». E Gedda non è stato l’unico ad accostare Sclarandi a Frassati. Nel 1957, quando le spoglie dell’alpino furono riportate in Italia e seppellite nella tomba di famiglia a Sangano ( Torino), Gianni Oberto, un compagno ad Hammerstein – che poi fu presidente della provincia di Torino –, ricordò che Sclarandi «penetrava nello squallore delle nostre baracche sempre col suo sorriso e metteva nei cuori la speranza. Ed è la grande dote che lo avvicinava a Frassati». E proprio all’Azione Cattolica il sottotenente si era votato, non mancando mai di coinvolgere nel “carisma” dell’associazione i suoi compagni, come ricordava don Mario Besnate, cappellano del campo di Hammerstein: «L’Azione Cattolica – raccontò il prete –, secondo Renato, era la nuova forza della Chiesa per la gioventù». Una missione che, secondo le testimonianze dei compagni come Attilio Rozza, Antonino Fugardi o il capitano Antonio Roberti, lo vedeva impegnato in numerose iniziative di preghiera, di incontro e condivisione. «Quando andavo a trovarlo nella sua baracca – raccontò un altro compagno, Rimero Chiodi – mi faceva partecipe della preghiera e della meditazione che stava facendo». E proprio Chiodi pochi mesi dopo, nel campo di Gross-Hesepe creò un gruppo di Azione Cattolica intitolato all’amico ucciso. Il 21 aprile 1944 Sclarandi ebbe l’ultimo dialogo con don Besnate: «Quella sera il colloquio lo concluse con questa dichiarazione che mai si cancellerà dalla mia mente – raccontò poi il sacerdote –. Mi disse: “Don Mario, non so se potrò ritornare a casa. Ma se dovessi morire in prigionia ti assicuro che non ho nessun rancore contro i tedeschi, perché li ho perdonati”». È facile comprendere, allora, perché il giorno in cui morì gli altri soldati italiani dello Stalag II-B non esitarono ad affermare e a mettere per iscritto -: «Era il migliore di noi». E l’eredità più attuale di questo «angelo del lager», martire e testimone della fede, forse, sta nelle parole affidate al diario il 15 dicembre 1943: «Signore, benedici l’Italia, il nostro sacrificio risparmi ulteriori lotte e contese interne».