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Biennale Musica. Salvatore Sciarrino: «Ascolto il suono della notte»

Alessandro Beltrami martedì 1 ottobre 2024

Il compositore Salvatore Sciarrino

Un grillo. Le sirene delle ambulanze e il fragore della raccolta differenziata del vetro. Scaglie di Stradella e di Chopin. Sono i frammenti che marcano il paesaggio – urbano, interiore, sognato – di Nocturnes, la nuova partitura per orchestra di Salvatore Sciarrino. Commissionatagli dalla Biennale di Venezia, debutterà in prima mondiale (insieme a Sospeso di Luca Francesconi) il 9 ottobre nell’ambito del 68° Festival Internazionale di Musica Contemporanea, con la Frankfurter Opern- und Museumsorchester diretta Thomas Guggeis. « Nocturnes non descrive i suoni del mondo, tuttavia li accoglie», spiega il maestro palermitano, Leone d’Oro alla carriera nel 2016, che da tempo lavora attorno al principio di “ambiente sonoro”: «Il compositore ha la capacità di presentare sensazioni (piuttosto che dire “io provo questo”) affinché a sua volta le percepisca anche l’ascoltatore».

La sua può essere definita una musica che nasce dall’ascolto e per tornare all’ascolto?

«Teoricamente, è così. Nella pratica è una musica costruita come un ambiente sonoro discontinuo in cui si manifestano sensazioni, contrasti, legami tra suoni della vita e suoni del concerto. Non si tratta di associazioni di tipo mimetico, ma è una questione di logica ambientale, di un finto caso. Quando parliamo di ascolto pensiamo a segnali che arrivano dall’esterno: in realtà, principalmente, non è così. I nostri sensi non sono soltanto il contatto con l’esterno ma anche con noi stessi: la nostra fisiologia, la nostra psicologia ce lo insegnano».

Perché questa attenzione verso un “ambiente sonoro”?

«Noi la musica la facciamo al chiuso, ma è qualcosa che riguarda il mondo aperto. Ogni uomo non può che riferirsi alla propria epoca, per noi è impossibile non ascoltare i suoni della contemporaneità. Come non potremmo? Con l’immaginazione possiamo creare ambienti o mondi sonori diversi, ma il riferimento resta quello in cui siamo immersi tutti soltanto aprendo la finestra. Ma sono elementi, fenomeni acustici a cui si può solo alludere. Non si possono ricostruire o riprodurre. Sono come segnali di allarme, che ci danno l’informazione del cambio di ambiente».

Come nascono i Nocturnes?

«Prima di tutto per me era interessante impostare un problema formale. Sono un compositore che ha scritto molto ma che cerca di variare situazioni e problematiche. La richiesta da parte della Biennale era per un pezzo di una certa durata, la cui impostazione solitamente pone due soluzioni: la prima è un’architettura ampia, che superi certe proporzioni; l’altra è dividere in più movimenti. Ho cercato una terza via, quella di avere lacerti di movimenti che si susseguono senza soluzione di continuità ma in modo eterogeneo. Negli anni ho teorizzato forme basate sul principio dell’interferenza, in cui di colpo cambia l’ambiente, con una discontinuità spaziale e temporale. Anche se ci sono ritorni di elementi nei movimenti, gli ambienti si accavallano l’uno dietro l’altro. Si manifestano così tre prospettive diverse contigue ma senza concatenazione logica».

Sullo stesso oggetto, la notte?

«Sì e no, perché si tratta di fatto di tre ambienti diversi. Mi piacerebbe che in generale la musica ci trasportasse altrove, ed è una cosa che spesso accade. Ma in linea teorica non è qualcosa che tutti i compositori vogliono: anzi spesso viene proprio evitata...»

Perché?

«È un fatto che deriva dall’accademismo di fondo dell’insegnamento musicale. La mia è stata esperienza trasversale a quella degli altri. Per far capire la mia distanza, dico sempre di essere entrato a scuola la prima volta per insegnare, non per imparare. La scuola, è ovvio, deve mediare, unificare e in questo è costretta a adottare scorciatoie che invece l’esperienza non dovrebbe utilizzare. Abbreviare i percorsi è dannoso. Le esperienze vanno fatte per intero, anche se ciò comporta pericoli e traumi. Fuori dalle schematizzazioni della scuola il rischio principale è essere dispersivi, imparare con più lavoro, ma alla fine l’apprendimento è maggiore».

Lei però ha insegnato e tuttora insegna nei conservatori...

«Ma, vede, io non insegno la mia musica. Cerco di adattarmi al linguaggio dei miei allievi. È vero che ho esercitato una certa influenza, ma è importante per me non autoproporsi all’allievo come metodo: l’apprendimento deve essere libero, lentissimo o istantaneo. E non insegno neppure analisi, perché questa tende a smontare mentre, secondo me, è più importante la sintesi. L’allievo deve digerire la musica del maestro, se la vuole prendere a modello. La creatività, per chi insegna, è la cosa più facile da distruggere ».

La musica di oggi sembra trovarsi più a suo agio nel confronto con la musica antica che con il blocco che definiamo classico e romantico. Lei invece non ha problemi a prendere in considerazione quella fase, incorporandola nelle partiture.

«Premesso che nelle prassi esecutive antico e contemporaneo sono incomunicanti – chi fa barocco di norma non esegue contemporaneo e viceversa – dal punto di vista compositivo la simbiosi può essere maggiore. Ad esempio, per me che volevo fare teatro, risalire alle origini era fondamentale, altrimenti non puoi porti i problemi basilari: L’incoronazione di Poppea di Monteverdi è stata per me la stella polare. Io trascrivo musica del passato per poterla studiare di nuovo e farla mia. I maestri della nostra tradizione sono fondamentali perché la nostra esperienza sia vitale. Ed è uno dei problemi che la scuola trascura. Ma è certamente vero che ci sono autori che conosciamo benissimo e all’improvviso si rivelano diversi. Per quanto riguarda il mondo romantico, anch’io in un primo tempo reagivo in modo forte: lo sentivo filtrato da persone che ripetevano cliché, schematizzavano l’espressione con un eccesso di enfasi. Ho scoperto invece di perdere molto senza il romanticismo, e che il problema era mio. È stato il primo aspetto del linguaggio che ho cercato di recuperare. Gli artisti navigano al buio, guardando le stelle».

Nel suo pensare la musica c’è una forte componente spaziale e visuale. Lei da ragazzo dipingeva, poi ha interrotto per dedicarsi alla composizione...

«Uno dei motivi che mi sono dato razionalmente – ma, chissà, forse è solo una scusa – è che non mi sembrava di poter avere un atteggiamento critico: potevo fare di tutto senza essere in crisi, e questo non mi faceva maturare. E così a 12 anni mi sono detto: voglio fare il compositore. Avevo abbastanza esperienza della pittura dei miei contemporanei e ho rovesciato questa mia sensibilità sulla musica che fin da piccolissimo avevo amato. Ci sono cose, grandi o piccole, che puoi fare solo tu, e in quelle devi eccellere. L’angolino che ti è dato nel mondo, devi coltivarlo».