Agorà

Storia. Quando la guerra si vinceva sugli sci

MARCELLO PALMIERI sabato 9 gennaio 2016
Adamello, Ortles Cevedale, Stelvio: i ghiacciai della Grande guerra. Lassù, cent’anni fa, si dovette (anche) sciare. Ma non per divertirsi, come si fa oggi. Per combattere. A questo servivano gli “alpini skiatori”: «Prevenire il nemico nella occupazione di posizioni importanti» e «mantenere» quelle conquistate «fino al sopraggiungere delle truppe destinate a presidiarle». D’altronde, le “tigri bianche” – così erano soprannominati dagli austriaci – funzionavano bene per gli attacchi a sorpresa, ed era giocoforza mandarli davanti a tutti. Ma il generale Luigi Cadorna lo sapeva bene: sarebbero state altissime le perdite umane, dunque era necessario limitare «il loro impiego unicamente ai casi nei quali le condizioni del terreno, del clima, e dello stato atmosferico, impediscono, o riducono molto, l’azione delle altre truppe di montagna». Loro compito era avvicinarsi velocemente al nemico. E quando «se ne riconoscerà giunto il fuggevole istante opportuno, occorre irrompere risolutamente». Aprire il fuoco all’improvviso. E risolvere l’attacco «nel più breve tempo possibile». Non importa se c’erano nebbia e tormenta: «Talvolta, tali particolari condizioni atmosferiche, frequenti in alta montagna e d’inverno, costituiscono coefficienti favorevoli alla sorpresa». Questo aveva scritto il comandante del Regio esercito italiano, firmando i “Criteri d’impiego dei riparti skiatori”. Era il 18 febbraio 1917: di lì a poco, il conflitto avrebbe preso la sua piega decisiva. Per esempio, con le due battaglie del Corno di Cavento: quando il 15 giugno di quell’anno e – in via definitiva – il 19 luglio del successivo, fu grazie agli alpini skiatori che gli italiani riuscirono a sconfiggere in Adamello i kaiserjäger austriaci.  Quegli attrezzi per muoversi velocemente sulla neve, in Italia avevano fatto la loro comparsa due decenni prima. Erano arrivati in dote con Adolf Kind, un ingegnere svizzero trapiantato a Torino. E il loro formidabile potenziale bellico lo intuì subito un militare piemontese, Ettore Troja: «Perché gli svedesi sì e noi no?», si era chiesto il comandante del Terzo reggimento alpini. Le sue parole scaturivano dalla storia: proprio grazie agli sci, già nel dodicesimo secolo il sovrano di Svezia aveva vinto un’importante battaglia. «Colonnello, li faccia bruciare quei cosi lì! Per quanto ancora dovremo farci ridere dietro da tutti?». Leggendo i commenti che riportano le cronache di fine Ottocento, non pare che i primi esperimenti italiani fossero coronati da grandi successi. Lo conferma il Centro studi degli alpini: ruzzoloni, movimenti goffi, aspiranti 'skiatori' che diventavano un tutt’uno con la neve... Erano le prime lezioni di sci militare. Per uscirne (anche letteralmente, dal bianco manto del suolo), ci vollero la tenacia di Troja e la pazienza dei suoi superiori. Una cosa è certa: il 25 agosto 1908, la disciplina entra ufficialmente nell’Esercito. La prima “Istruzione sull’uso degli ski” porta la firma di Severino Casana, allora Ministro della guerra. È vero: la descrizione che il testo dà di quegli arnesi lignei («in frassino leggero stagionato», piallati «secondo la direzione delle fibre dalla punta verso la coda ») sembra rimandare a un sapere ormai superato dal progresso della storia. Ma le tecniche di conduzione che presenta, quelle no. Anzi. Per «skiare in piano – vi si legge – si strisciano i pattini sulla neve senza mai sollevarli»: praticamente, l’attuale gesto dello sci di fondo. Prosegue l’“Istruzione”: «Se il pendio è troppo ripido per salire di fronte, conviene superarlo facendo le opportune voltate». E, per non scivolare all’indietro, «puó giovare l’applicare sotto ai pattini una striscia di pelle di foca»: né più né meno di quanto fanno oggi gli scialpinisti (che hanno solo sostituito il pelo animale con un tessuto sintetico, pur continuando a chiamarlo nello stesso modo). E in discesa? Bisogna «inclinare il corpo più o meno avanti a seconda che il terreno scende più o meno, e ció per avere il corpo perpendicolare al terreno che si percorre». Con l’avvertenza di tenere «le gambe leggermente piegate, e molleggiando sulle ginocchia». Lo dice il documento del 1908, ed è quanto i maestri di sci stanno ripetendo ai loro allievi anche in questi giorni. All’inizio della Grande guerra, però, ben pochi alpini sapevano “skiare”. E per imparare a farlo sarebbe servito un grande impegno. L’“Istruzione” lo aveva considerato. Così, in coloro che fossero sopravvissuti, già vedeva i pionieri del nuovo sport: «Allo scopo di diffondere sempre più l’uso degli ski nelle vallate alpine – si legge nella premessa del testo – all’atto del congedamento, ciascun corpo rilascerà ai militari skiatori appartenenti ai distretti di montagna, i quali avranno dimostrato maggior passione e attitudine, gli ski adoperati sotto le armi». Speranza vana, per molti di loro. Che dagli 'ski' caddero definitivamente: unico involontario conforto sopra il corpo riverso a terra, il segno di croce disegnato dai loro stessi legni nell’impeto dell’ultimo volo. Quanti morirono, di “tigri bianche”, non è dato sapere. C’è però un dato complessivo, offerto dal catalogo della mostra “SkiPast” (Fondazione museo storico del Trentino, anno 2013): tra tutti i reparti d’alta quota, su entrambi i fronti, si parla di almeno 150mila perdite. Due terzi delle quali dovute a eventi naturali, soprattutto assideramenti e slavine. Per quei giovani volti rapiti dai ghiacci perenni, Giovanni Paolo II diede vita a una evento mai visto dalla storia: lui, pontefice sportivo, accettò di solcare l’Adamello sci ai piedi. E, quando vide le loro croci affiorare dalla neve, si fermò immediatamente. Chiese di essere lasciato solo. E, chi lo scrutò da lontano, ancor oggi non riesce a esprimere la tensione spirituale di quel momento. Era il 16 luglio 1984.