Agorà

Intervista. Arturo Schwarz, l’ultimo surrealista

Massimiliano Castellani sabato 1 febbraio 2014

Arturo Schwarz nel 1998

«Non esiste alcuna regola, gli esempi non vengono che in soccorso alle regole che fanno fatica a reggersi». È con questo aforisma del padre dei surrealisti André Breton che varchiamo la soglia della casa nel cuore storico di Milano (in Porta Vigentina) di Arturo Schwarz. Un “giovane novantenne” – festeggia il 3 febbraio – che sprizza vitalità a ogni racconto da ultimo dei surrealisti, «l’unica etichetta che posso accettare di buon grado».Ed è grazie a questa matrice se è scampato sempre a ogni regola arbitraria, facendo convivere, senza fatica, le sue tante anime. Quella dell’ebreo errante con l’editore, il gallerista, l’alchimista, il critico d’arte, il saggista e il poeta. Un lungo e appassionato lavoro culturale iniziato ad Alessandria d’Egitto, dove è nato: da madre italiana, «si chiamava Margherita Vitta», e da padre tedesco. «Il mio papà, l’ingegnere Riccardo Schwarz, venne chiamato in Egitto ai primi del ’900, in quanto aveva inventato un sistema di disidratazione delle cipolle e delle uova che, assieme al cotone, erano le maggiori fonti di esportazione dell’Egitto. Con quella trovata, permise di azzerare il deficit del Paese. Un genio». Una genialità trasmessa per via diretta a quel figlio che giovanissimo aprì due librerie francesi, la Librerie Culture e la Librerie Schwarz. «Avevo sedici anni quando con le venti piastre a disposizione decisi di regalarmi Le revolver à cheveux blancs e il Manifeste du surréalisme di André Breton allora a me ignoto. Un’autentica rivelazione. Con grande sorpresa mi resi conto che le mie poesie – le scrivevo dalla prima adolescenza – inconsapevolmente seguivano già lo stile surrealista. Presi carta e penna e inviai una lettera a Breton che avrei voluto raggiungere subito a New York, dove faceva lo speaker a Radio France Libre. Ma c’era un oceano da attraversare e, peggio, ancora un’atroce guerra di mezzo».
Mentre gli europei subivano la Shoah e l’olocausto nazifascista, il giovane Schwarz, che nel frattempo aveva cominciato la sua attività di editore di opere – «naturalmente francesi» – subiva prima l’esperienza della prigionia nel carcere duro di Hadra e poi quella del confino. «Finii dietro le sbarre per un anno e mezzo con l’accusa di “trockijsta” per essere stato uno dei fondatori della Quarta internazionale. Per le strade di Alessandria sfilavamo in corteo, al grido: “Viva l’unità degli operai e degli studenti”. Per le autorità ero diventato un soggetto pericolosissimo che andava fermato, zittito». Si lascia andare a un sorriso amaro, poi la memoria di ferro lo riporta un tempo assai cupo, difficile da decifrare. «Quando arrivò la Croce rossa mi trasferirono nel campo d’internamento di Abukir e nel febbraio del 1949 l’armistizio stabilì che noi ebrei d’Egitto dovevamo scegliere se essere espulsi in Israele o andare a risiedere nella terra d’origine. Così venni estradato nella “materna” Italia».
Con una valigia vuota, «non avevo neppure un ricambio», si stabilì a Milano, «la mia città, che non ho mai abbandonato e mai lo farò, perché è una delle poche in Europa che continua a produrre cultura anche sotto le “bombe” della crisi economica e morale». Il primo impiego fu in una ditta che fabbricava carta da giornale per conto di una società svedese. Un lavoro che gli permise di ottenere un passaporto con cui viaggiare per l’Europa e raggiungere Parigi, per bussare alla porta di un appartamento in rue Fontaine 42. «Era l’indirizzo della casa di Breton, che negli anni aveva sempre risposto alle mie lettere. Mi vide entrare pallido ed emozionato in quella stanza stipata di libri e di opere d’arte. Mi accolse come un amico di vecchia data e fu un vero tuffo al cuore per un giovane che era alla ricerca del suo destino».
Tornato a Milano iniziò la “grande impresa”. «Uno zio direttore alla Banca commerciale, Guido Rossi, mi concesse un fido con il quale cominciai a pubblicare i libri di giovani poeti come Elio Pagliarani e Antonio Porta, ma anche Mario Luzi, Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo. Ma ebbi la sfrontatezza di fare uscire per le mie edizioni La rivoluzione tradita di Trockij, inserendo al volume una fascetta gialla molto evidente, in cui si avvertiva il lettore: “Stalin passerà alla storia come il boia della classe operaia”. Mi ero scavato la fossa. Togliatti in persona telefonò a Mattioli, l’allora direttore della Banca commerciale, e gli intimò di sospendere ogni appoggio economico a quel “trocko-fascista”. Così mi chiamò...».
Altra risata, ma stavolta meno amara. E di nuovo un tuffo nel passato che parla da sé, dalle pareti a cui stanno appese le opere accumulate in tutta la vita da Schwarz che all’epoca, non potendo più fare l’editore, ripiegò sull’attività di libraio. Così, esattamente sessant’anni fa, nel 1954, in via della Spiga apriva i battenti la libreria omonima. «Ma con i libri già allora non si campava. La mia poi era una libreria troppo specializzata e così decisi di allargare gli orizzonti con una galleria in via del Gesù, al civico 17, in cui potevo organizzare mostre e vendere le opere dei tanti amici artisti sparsi per il mondo». Fu quello un decennio, dal 1961 al 1972, in cui a Milano grazie alla Galleria Schwarz passò in mostra tutto il Surrealismo e il Dadaismo, con le leggendarie personali dedicate a Magritte, Man Ray, Sebastián Matta, Miró, Marcel Duchamp, Max Ernst, Francis Picabia. E l’elenco potrebbe diventare sterminato, aggiungendo i pittori e gli scultori italiani dell’ultima avanguardia. Tutti lanciati e incentivati da quest’ultimo mecenate che nel frattempo pubblicava cataloghi, mandava alle stampe una sessantina di saggi e oggi è giunto quasi a cento raccolte di poesia. «“Ricordati di amare per vivere / solo l’amore è dura felicità…”. È un verso di in una delle mie ultime poesie (Ricordati, da Mattino dolce interminabile è il suo corpo, edizioni Campi magnetici).L’amore è quello che mi ha portato a coltivare amicizie eterne, come quelle con Breton, Duchamp, Man Ray, Elio Vittorini, Enrico Baj, Sergio Dangelo, Franco Francese, Alik Cavaliere. L’amore per la cultura, anche in un tempo in cui non c’è amore, mi ha permesso di collezionare tutti questi libri [mostra con orgoglio gli scaffali che ospitano quarantamila volumi, tutti catalogati per argomento, ndr]. E, per amore dell’arte, un giorno ho deciso che era giusto che tante delle mie opere tornassero indietro, a beneficio della conoscenza e dell’occhio del popolo».
Così la straordinaria collezione Schwarz è andata in dono alla Galleria d’Arte moderna di Roma: «450 opere». Altrettante circa, rispettivamente, a quelle di Gerusalemme e di Tel Aviv; alla città di Be’er Sheva, l’intera raccolta di grafiche (550) «tra cui quelle di Johns, Rauschenberg e Redon». Generosità di chi dice di «credere prima di tutto nel fare, nell’homo sapiens sapiens che è sempre lo stesso da ventimila anni e perciò alla continua ricerca della verità e del senso del domani. Le mie risposte le ho trovate in quel libro assoluto che è l’Etica di Spinoza, così come devo tanto alla lettura del Cantico dei Cantici, agli scritti di Marx e Freud e alla saggistica di Bergson. Tanto della vita l’ho appreso dal gioco degli scacchi e dalle partite con Duchamp. Ma la mia anima, l’ha svelata il Surrealismo». Perciò non meraviglia che il Manifesto surrealista sia del 1924, l’anno in cui è nato Schwarz, e lì in quelle pagine Breton ha scritto: «Il meraviglioso è sempre bello, qualsiasi meraviglioso è sempre bello, anzi non c’è niente di bello che il meraviglioso».