Roma. Scherzi, scarabocchi e graffi di protesta
Particolare di un disegno di Agostino Carracci
I muri sono stati, fin dall’antichità, anzi già nella preistoria come dimostrano i graffiti rupestri, il supporto più idoneo per le “esternazioni” dell’uomo molto prima che entrasse in gioco la figura sociale dell’artista. Forse può sorprendere oggi pensare che nei primi due secoli dell’era cristiana, come ricorda Plinio il Giovane in una lettera, proliferò sui muri di Roma il fenomeno di scarabocchi e scritte a opera di gente comune. Fra una casa e un’osteria, un postribolo o un luogo sacro, al mercato o nelle scuole le plebi romane depositavano il loro segno sapendo che il messaggio sarebbe arrivato al popolo e ai rappresentanti del potere. Chi governa la cosa pubblica, infatti, è da sempre molto attento a queste manifestazioni “ribelli” o goliardiche, i cui contenuti anche allora erano burleschi, erotici, di scherno, poetici ma anche devozionali. Sapere che Pompei era in cima alla classifica dei graffiti urbani (pare fossero ben più di diecimila, il triplo almeno di quelli di Roma), può stupire. Un passante dell’epoca aveva scritto ironicamente: «mi meraviglio, o muro, che tu non sia ancora crollato sotto il peso di così tante scritte». Il fenomeno pompeiano forse denota una maggiore libertà di espressione nella periferia rispetto alla capitale dell’impero.
A metà dell’Ottocento la rivista “Civiltà Cattolica” rendeva nota la scoperta di un “graffito blasfemo” all’interno del palazzo imperiale sul Palatino: rappresentava una figura che indica un uomo crocifisso la cui testa però è quella di un asino. Era interpolato da alcune parole greche che dicevano «Alessameno adora dio». L’aspetto è quello di una vignetta di giornale, pochi tratti essenziali ma incisivi e il messaggio fuso con l’immagine. Il gesuita Raffaele Garrucci non ebbe dubbi, nel 1856, che l’autore dello scherno fosse uno studente del Paedagogium rivolto contro un compagno di fede cristiana: non si limitava a deridere il credente, ma andava a colpire l’immagine stessa del Dio crocifisso rappresentato con testa d’asino (come un idolo, insomma). Il mondo, da allora, non sembra essere molto cambiato. Ancora oggi i muri delle nostre città sono spesso imbrattati da scritte o disegni che hanno quasi sempre una carica ribelle, talvolta in toni più che offensivi.
Negli anni della contestazione e poi in quelli di piombo sui muri delle città, quelli delle università e delle loro latrine, proliferavano disegni e scritte aggressive in nome della libertà. Ma anche carceri e scuole, stadi e sottopassaggi metropolitani debordano, pure oggi, di “disegni” dalla carica spregiativa, in genere contro un potere. Sono sintomi di un disagio, di una rivolta, di una noia dettata da un vuoto esistenziale che molti sperimentano. Si potrebbero trovare le ragioni nel conflitto fra pulsioni individuali e controllo sociale già formulate da Freud nel 1930 nel saggio Il disagio della civiltà, poi riprese e amplificate in senso antirepressivo dalle tesi di Marcuse e di Foucault.
Un disegno di Pierre Alechinsky dalle "Écritures trouvées" (1974) - .
Vedendo la mostra Gribouillage/Scarabocchio che Villa Medici propone ancora per qualche settimana, si ha come la sensazione che il contenuto ribelle venga devitalizzato in un discorso anzitutto estetico e artistico, dove tutt’al più emerge una schizo- frenia individuale anziché collettiva. Viene da chiedersi se l’arte non sia oggi il canale dove vengono convogliate le pulsioni sociali affinché esplodano in uno spazio controllato (non è forse la funzione principale della televisione?), quello delle immagini. L’estetico domina, per esempio, nel bellissimo ciclo fotografico di Brassaï dedicato ai graffiti urbani. Che cos’è dunque uno scarabocchio? In risposta si potrebbe parafrasare un celebre verso di Gertrude Stein: Scarabocchio è uno scarabocchio è uno scarabocchio è uno scarabocchio. Quando nel 1913 la Stein scrive in Sacred Emily «Rosa è una rosa è una rosa è una rosa» ci sta dicendo che parla di una rosa reale, questa rosadirebbe Wittgenstein, e la prima Rosa che genera il verso pare fosse proprio il nome di una persona vera. Forse la rosa della Stein era nella mente di Duchamp quando nel 1921 indossò i panni in Rrose Sélavy, nome interpretato in vario modo, dove Rose può essere l’anagramma di eros e Sélavy la trasposizione nominale di “c’est la vie”.
Giacometti mentre cerca di incorniciare uno scarabocchio nel suo studio (1958), foto di Inge Morath - .
In ogni caso, applicando allo scarabocchio il modello d’identità della Stein, si evita quanto meno di cadere nella trappola che la mostra Gribouillages tende allo spettatore immagine dopo immagine, e poi con le riflessioni di vari studiosi nel catalogo in francese a cura di Francesca Alberti e Diane H. Bodart. Mauro Mussolin, per esempio, studia la presenza dello scarabocchio nei disegni di Michelangelo. Schizzo sgraziato, senza sforzo, segno oscuro o indecifrabile, cancellazione, groviglio di correzioni... «ciò che accomuna i diversi significati del termine è la costante mancanza di ordine o di regola, che non impedisce che lo scarabocchio venga tracciato da una mano esperta... Ci sono quindi scarabocchi magistrali, realizzati quando la mente dell’artista entra liberamente nel territorio della marginalità e dell’anarchia formale, esprimendosi in un linguaggio senza codice». E Michelangelo è questo artista. Anche quando scarabocchia non riesce mai a distrarsi, si prende sempre sul serio, la mano è vigile e traccia «segni di un’enorme tensione concettuale».
Difficile immaginare Michelangelo che fa scarabocchi ameni come accade a molti di noi quando le riunioni d’ufficio mettono a dura prova lo sbadiglio. I nostri ghirigori non sono che banali residui di una prassi ben più elevata che corrispondeva ai marginalia che figurano spesso ai bordi degli antichi codici. Qui si apre anche la via terapeutica: quanti psichiatri hanno usato il disegno per afferrare le cause del malessere che turba la mente dei loro pazienti? Il problema venne sviscerato dallo psichiatra Jean Vinchon, nel 1959, nel saggio La Magie di dessin. Du Griffonnage automatique au dessin Thérapeutique. Ma che dire, già da prima, degli scarabocchi e delle immagini surreali nel postumoLibro Rosso di Jung? È questo un filone anche troppo sfruttato dalla critica per gettare un ponte fra arte e follia (si pensi alle acute riflessioni di Jaspers su Van Gogh), ma oggi rischia di essere il viatico assoluto che rende tutta l’arte sintomatica o sociologica.
Joan Miro, "Pittura (Testa)" del 1930 - .
L’Art Brut, che Dubuffet ha tenuto a battesimo nel 1945 e in mostra è documentata, è ancora interessante, a patto che non si parta dall’idea che nessuno di noi è normale perché in tutti si trova un germe di schizofrenia. Può diventare l’alibi per dire in ogni uomo strano c’è un artista e che arte e follia giocano di sponda. Se l’uomo è per sua natura creativo, ciò nondimeno, avuta la dote di partenza, artisti si diventa con pazienza e metodo. Quanta razionalità, intenzione, volontà e significato ci sono in un segno che non si potrà mai equiparare alla traccia che la lumaca lascia con la sua bava cristallina disegnando un groviglio affatto casuale? La follia non è questa condizione acefala e stocastica, ma non è nemmeno il presupposto ideale per pensare l’arte. Hugo Daniel ricorda i dessins de fous che Robert Desnos aveva pubblicato nel 1924 sulla rivista “Les Feuilles libres”, firmandosi col nome prestatogli dal poeta Paul Eluard, a corredo del saggio Il genio senza specchio. Un “gioco” che corroborava il pensiero surrealista sul magismo dell’arte. «Non avremo mai lo sguardo adeguato per comprendere appieno i pensieri nascosti dentro questi segni », scrive Mussolin. Potrebbe essere la risposta più pertinente anche ai graffiti di Twombly o di Michaux, a quelli di Wols e di Fautrier, ovvero a quelli di Fontana e Per Kirkeby (perché non Beuys?), ciascuno col suo “caso”, certo non riconducibile genericamente al non senso di un’arte automatica che nel cadavre esquisse trova la sua finzione concettuale, fino all’erotico Espasmo-Grafisme di Dalí.
Eppure di fronte a ogni riconoscimento che stabilisce l’identità “A è A”, cade il principio d’insignificanza dell’arte, la quale, scrisse una volta Jacques Rivière, non può non avere un significato. Quindi, lo scarabocchio potrebbe farne a meno soltanto rinunciando a ogni pretesa d’arte, e rimanendo, come è stato spesso fino a ieri «ai margini della storia dell’arte» (Hugo Daniel). Ma è proprio questa la ragione che ha spinto le avanguardie a occuparsene. E non sarebbe improprio dire che il groviglio dei segni cerca di imbrigliare il senso della fine. Quello che si svela nell’incredibile studio per il Ragazzo rapito dalla morte di Stefano Della Bella (1648).
È vero però che nel momento in cui Picasso, Miró, Pollock, Steiberg, Brancusi, Appel, Klee s’immergono nel mistero di questa “diversità”, dove infantilismo, follia, primitivismo si scambiano le parti, essi la assumono come tema espressivo. Non sono innocenti. Dall’arte 'inculta', per dirla con Leonardo – che ancora compare sui muri, ma anche sul verso delle opere di Bellini, Raffaello, Annibale Carracci, Rembrandt, Signorelli, Pontormo –, all’arte programmata, discorso a cui i moderni sfuggono raramente, alla ricerca di un’origine che forse non è mai esistita, almeno nel modo in cui la pensiamo.
"Ragazzo con disegno di pupazzo" di Giovanni Francesco Caroto (1523 c., Verona, Museo di Castelvecchio) - .
Anzi, sì: l’unica costante storica dello scarabocchio nei secoli è quella del disegno infantile, sempre simile a se stesso come engramma della mente umana che nasce. Alla fine, questo universo si condensa nell’immagine fotografica di Inge Morath che vede Alberto Giacometti su una scala mentre cerca di incorniciare uno scarabocchio sul muro del suo atelier. L’arte, dopotutto, è fatta di niente.