Filosofia. Scheler davanti al male come Ivan Karamazov
Max Scheler
«Alla prima impressione Scheler era affascinante. Non mi è più capitato di vedere in un uomo un’espressione così pura del fenomeno della genialità. I suoi grandi occhi azzurri emanavano lo splendore di un mondo superiore». Così Edith Stein descrive uno dei suoi maestri, il filosofo tedesco Max Scheler, nato a Monaco nel 1874 e morto a Francoforte nel 1928, prima di vedere l’instaurarsi della dittatura nazista. Di origini ebraiche, a 25 anni si era convertito al cattolicesimo, da cui avrebbe preso le distanze negli ultimi anni della sua vita. Suo figlio Wolfgang morì nei lager. Definito “il Nietzsche cattolico” per aver affrontato con analisi e spirito originali tematiche come il dolore e l’angoscia, ma anche l’amore e l’empatia, a lui si ispirò anche Karol Wojtyla in alcune opere di stampo filosofico scritte prima di diventare papa. Ora di Scheler esce per Mimesis il volume a cura di Alessio Musio, con testo originale a fronte, Il senso della sofferenza (Mimesis, Pagine 152, euro 14,00), che da molti anni mancava nel nostro Paese. Il libro ebbe una prima versione nel 1916, quella che qui viene presentata in una nuova traduzione, ma il filosofo lo rimaneggiò più volte sin quasi alla morte: si tratta di riflessioni che forzatamente risentono del clima della Prima guerra mondiale, che come sottolinea Musio nell’introduzione Scheler considerava «una bancarotta etico-politica del cristianesimo». Il pensatore noto per saggi come Ordo amoris e Essenze e forme della simpatia opera una distinzione fra dolore e sofferenza: il primo tocca una sfera più fisica, la seconda ha un risvolto più esistenziale. «A essere in gioco – annota ancora Musio – non è soltanto il dolore, quanto piuttosto la sofferenza e dunque per estensione il soffrire o il patire», termine quest’ultimo «in grado di accomunare propriamente sia il dolore sia la sofferenza».
La questione del male è ineludibile per l’uomo ed è impossibile, dice Scheler, «gettar via semplicemente dal mondo il male, la sofferenza e il dolore, come nell’ultima disperata mossa con cui Laocoonte si difende dai due serpenti che si stavano ormai scagliando contro di lui». È talmente ineludibile che diventa inevitabile chiamare in causa Dio: «Perché il Fondamento divino del mondo – così razionale e saggio nell’aver fornito all’essere vivente un sistema di segnali naturali per mostrargli ciò che dovrebbe o non dovrebbe fare per la sua autoconservazione e promozione – non ha fatto ricorso a un mezzo un po’ meno barbaro e violento?». Domande che, come nel caso di molti altri filosofi e scrittori, Dostoevskij in primis, sono risuonate più volte facendo diventare impossibile la teodicea. Al punto che anche Scheler, come Ivan Karamazov che restituisce il biglietto a un Dio che permette la sofferenza innocente dei bambini, può affermare: «L’esistenza anche di un’unica sensazione di dolore, all’interno di un mondo che per il resto brillasse, invece, di pace, beatitudine e armonia, sarebbe del tutto sufficiente a negare la mia approvazione a un simile Creatore del mondo immensamente buono e onnipotente».
Dinanzi a questo dilemma, Scheler pare ondeggiare, sospeso fra buddhismo e cristianesimo. Senza cedere al dolorismo, la sua etica reinterpreta quelli che considera, rileva Musio, «i due atteggiamenti umani possibili di fronte al patire: quello dell’incontro (cristiano) e quello, non solo buddhista, ma anche occidentale e dunque tecnologico del suo annullamento». Il buddhismo tende a sopprimere la sofferenza, facendo subentrare «il vuoto del nulla», dice ancora Scheler, e non è poi molto dissimile dai tentativi della tecnoscienza. Ben diversa la posizione del cristianesimo, che intende opporre resistenza al male. Nell’ultima formulazione del saggio, il filosofo pur affascinato dalla figura di Cristo si mostra incerto fra le due alternative, fra la “santa indifferenza” del Buddha e la logica del sacrificio, del dono e dell’amore manifestata da Gesù.
Un’altra annotazione singolare di Scheler, noto anche per aver definito la filosofia di Heidegger «un’ontologia da calzolaio», riguarda l’incremento del dolore nel mondo tanto più crescono la cultura e la civilizzazione. Alle grandi conquiste realizzate in Occidente non ha corrisposto una crescita della felicità, anzi. Un ragionamento di filosofia della storia che si appoggia alle tesi di vari pensatori, da Rousseau a Kant, da von Hartmann a Schopenhauer e che appunto vuole «mostrare come le sofferenze dell’umanità aumentino e si approfondiscano con l’avanzare della civilizzazione e della cultura. In un modo che fa pendere in negativo la bilancia che misura piaceri e dolori». Una tesi che può far discutere naturalmente, cui fanno da contraltare queste parole del grande antropologo René Girard: «Non che il nostro sia il migliore dei mondi possibili e che non vi siano ingiustizie o tragedie, ma indubbiamente è un mondo che salva più vittime di quanto non sia avvenuto in qualsiasi periodo storico. Certo, il sistema del mercato fa le sue vittime, in Occidente e soprattutto nel Terzo Mondo dove l’ineguaglianza può portare a situazioni esplosive, ma produce anche forme di protezione impensabili rispetto al passato».