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UN CONCERTO NELLA STORIA. Scala, brividi e magia Abbado è tornato a casa

Pierachille Dolfini mercoledì 31 ottobre 2012
​Quel gesto semplice, quello stringere, come a cercare una sicurezza, l’impugnatura della bacchetta ben nascosta nella manica della giacca, la dice lunga. Racconta un’emozione che forse anche per lui, uno dei più grandi direttori d’orchestra al mondo abituato al podio dei Wiener e dei Berliner, è troppo. Meglio aggrapparsi alla musica, cercare ancora una volta quel salvagente che anche nei periodi più bui della malattia l’ha aiutato a trovare una speranza. Con quella bacchetta ben stretta Claudio Abbado ieri sera è tornato a casa. Al Teatro alla Scala di Milano. Dopo ventisei anni. «Claudio!» il pubblico in piedi grida il nome del maestro. Daniel Barenboim, per una sera solista al piano, gli lascia la scena, lo incita a prendersi gli applausi di bentornato. Qualcuno non resiste e con il telefonino scatta una foto per fissare il momento storico del ritorno di Abbado che doveva arrivare a Milano nel 2010, ma un’improvvisa indisposizione glielo impedì. Aveva chiesto all’allora giunta di Letizia Moratti – nel frattempo sostituita dalla squadra di centrosinistra guidata da Giuliano Pisapia – novantamila alberi da piantare in città. Ma il cachet verde non si è mai visto.Comunque «Milano è cambiata» osserva il maestro. Il suo sguardo, quando un po’ timidamente mette piede sul palco, sembra lo stesso della foto un po’ scolorita che lo ritrae mentre lascia il palco della Scala il 9 giugno 1986. La sua ultima volta su quello che era stato per 18 anni il "suo" podio. Uno sguardo all’insù. Gli occhi vispi e curiosi. A cercare, oggi, se gli amici di un tempo sono ancora lì ad aspettarlo. Ci sono i loggionisti, in coda, dalle tre del mattino. Ci sono i fan del Cai, il Club abbadiani itineranti, che dal 1986 seguono il maestro ovunque, arrivati in teatro su un tram tutto per loro.Qualcuno, però, manca all’appello, se ne è andato in questi ventisei anni. L’ultima, inaspettatamente, la sorella Luciana che ha chiuso gli occhi proprio mentre lui provava la Sesta sinfonia di Gustav Mahler. Detta la Tragica perché con il suo continuo passare dal maggiore al minore, luci e ombre dette in musica, racconta la vita. Quella che in questi ventisei anni è passata. Perché non è vero che il tempo sembra essersi fermato. Lo capisci, seduto in platea e con in mano quella foto. Solo lo sguardo e gli occhi sono quelli di allora. Il corpo no, ha lottato con la malattia. Lo vedi ascoltando Abbado per la prima volta dirigere alla Scala. Perché ventisei anni sono più di una generazione. Tanto che tra i musicisti della Filarmonica della Scala sono solo una ventina quelli che c’erano anche ieri, quando nel 1982 Abbado fondò l’orchestra. Suonano Chopin e Mahler con la sensibilità degli uomini degli anni Duemila. Lo senti. Lo sente Abbado. E lo fa sentire accompagnando l’amico Daniel Barenboim, al pianoforte per festeggiare i suoi 70 anni con il Primo concerto di Chopin – pagina che resta, nonostante le richieste, senza bis perché «Lo farei volentieri ma stasera è una serata speciale, è la serata del mio amico Claudio. E sono felice di aver partecipato a questa festa». La purezza della Romanza si fa respiro dell’umanità, sguardo che conforta il nostro presente. Lo senti, paradossalmente, anche nella Sesta – sul palco sono in 150, perché agli orchestrali milanesi si sono uniti i giovani dell’Orchestra Mozart di Bologna – dove Mahler, nei sinistri colpi di martello del Finale, mette tutto il suo pessimismo. Abbado legge la Tragica come una radiografia del nostro oggi fatto di crisi e di vuoto di valori. Ma la illumina di un’inaspettata speranza, spegnendola in un silenzio che in teatro resta sospeso per interminabili secondi e che mette nelle mani di chi ascolta la responsabilità del futuro. La miglior risposta per chi, con nostalgia, guarda a un passato che non torna. Sguardo proteso in avanti, suggello di un concerto, dedicato al Vidas, attesissimo: Abbado ha voluto aprire le prove ai giovani, ma ieri niente diretta radio o tv. Così che l’unica traccia, svanite le note, resterà solo nell’anima dei presenti. Che alla fine, tutti in piedi, hanno salutato Abbado con lanci di fiori e applausi per 15 interminabili minuti.