Il nome di Sayat-Nova, il grande poeta del Settecento armeno, è stato fino ad oggi in Italia molto più noto della sua opera letteraria. Tutti gli appassionati di cinema d’autore conoscono infatti Sergej Paradjanov, il famoso regista armeno, a lungo perseguitato dal regime sovietico, che gli ha dedicato il film
Il colore del melograno (1969). Lo vidi con un gruppo di amici una sera a Ravenna, diversi anni fa: e furono per tutti noi una sorpresa incredibile quelle originali, sontuose immagini che illustravano appunto la vita di Sayat-Nova, l’ultimo degli
ashug d’Armenia, i trovatori-cantastorie che vivevano presso le corti principesche del Caucaso e cantavano fatti d’arme e imprese mirabili, ma soprattutto donne bellissime dalle forme conturbanti, paragonate a ogni albero o fiore del creato, di fronte alle quali il poeta poteva soltanto mostrare venerazione e gemere d’amore, come di fronte a una presenza abbagliante. Mentre le scene lentamente fluivano, una dopo l’altra, secondo il loro ritmo e le loro affinità misteriose, ci pareva di essere immersi in una magia irreale e quasi contemplativa. Con grande originalità il regista era riuscito a legare fra loro, in quelle immagini folgoranti e squisite, poesia e musica: il ritmo dei versi sembrava essersi riversato in suono e visione, esercitando su noi spettatori una suggestione quasi ipnotica. Ma adesso è finalmente stato pubblicato in italiano l’intero
Canzoniere armeno di Sayat-Nova (vissuto circa fra il 1712 e il 1795), con testo a fronte, a cura e nella splendida traduzione di Paola Mildonian: una fatica durata molti anni, per il peculiare originalissimo impasto linguistico dell’autore, che scriveva – indifferentemente in armeno, georgiano, turco azerì –- splendide canzoni per musica, destinate ad essere recitate con l’accompagnamento di uno strumento, soprattutto l’amato
kamancià. Il loro ritmo ondeggiante, i ritornelli e le variazioni sul tema, giocati in strofe sempre più drammatiche dall’inizio alla fine, creano effetti di profonda, raffinata intensità, fino all’ultima strofa, quando inevitabilmente compare, parlando di sé in terza persona, l’autore-protagonista, raffigurato come l’umile amante che prega, contempla, si dispera. Sayat-Nova (il suo nome di battesimo era Harutiun, che vuol dire Resurrezione), era raffinato musicista oltre che poeta. L’ottima introduzione della curatrice, oltre ai dettagli di una vita avventurosa, che alterna periodi di grande successo – come
ashug di corte dei sovrani di Georgia – ad anni di persecuzione e di sfortuna, offre un’esauriente analisi del personaggio e dell’ambiente dove è vissuto, dagli anni della sua formazione musicale e artistica fino al periodo finale come monaco. Da un suo poema autobiografico si dipana un racconto straordinario: dopo l’apprendistato come sarto, diventa mercante (o militare) e intorno ai vent’anni viaggia in Abissinia e in India, ma, curiosamente, impara a scrivere solo a sedici, ed è a venticinque che ha la sua prima rivelazione di estasi poetico-amorosa, scoprendo il suo vero talento. È un poeta originale e complesso, che riassume in sé l’ultimo fiore dell’arte trobadorica del Caucaso, giocando su un articolatissimo sistema di rimandi linguistici, strofici, poetici verso tutte le tradizioni orientali. Molto presenti gli echi della lirica persiana, con le sue immagini fissate come icone immediatamente percepibili e allusive: la rosa, il giardino chiuso, l’accecamento amoroso, lo specchio, le tenebre. Ogni lirica era accompagnata dalla musica, ne prendeva luce e gliene dava: perché non esiste poesia, dice Sayat-Nova, senza il suono di strumenti come il
kamancià, il suo preferito: il poeta-cantastorie deve essere anche provetto musicista. Il ritmo nascosto di una poesia deve echeggiare nella musica, ogni parola deve legarsi a quelle che la precedono e la seguono, quasi dissolvendosi in esse, come un tassello di mosaico o un’esatta pennellata. Sayat-Nova scriveva in diverse lingue, ma la musica era la stessa, e nelle corti come nei mercati e lungo le strade d’Oriente tutti gli ascoltatori si riconoscevano in una comune civiltà e cultura, ritrovavano i simboli dell’esperienza amorosa – e di quella mistica – unite in un doloroso vagheggiamento dell’irraggiungibile: «Se pure ti lodasse il mondo intero, non direbbe di te in minima parte. / Ninfea, fiore dei mari, viola che si è dischiusa al vento, / come resistere al tuo amore? L’acqua si porti via Sayat-Nova. / Chi t’ha visto più di una volta dissennato hai reso e demente». Colori, odori, suoni, sete preziose, pietre scintillanti, cipressi e mirti, la rosa rossa e l’usignolo notturno, mostrano un universo in tensione, proteso verso un’impossibile conoscenza d’amore: «Vestita di raso ricco di ricami d’oro fino, slanciato ramo di cipresso, / hai una tazza nella mano, colmala, dammela, a quella coppa m’immolo. / Fai pure a pezzi il tuo Sayat-Nova, purché tu venga nel mio giardino. / Entra nel giardino coi tuoi vezzi, ti loderò col canto, amore, con le implorazioni».
Sayat-Nova «CANZONIERE ARMENO»Ariele, pagine 214, euro 21