Agorà

REPORTAGE. Sarajevo, rischio islamismo

Lorenzo Fazzini domenica 28 giugno 2009
Un edificio scintillante di modernità: vetri a specchio, porte automatiche, grandi pubblicità. Si chiama Bbi Centar, sigla di «Banka Bosnian International», l’istituto di credito nazionale della Federazione bosniaca, ed è un centro commerciale sorto di recente a Sarajevo. Ma in realtà questa mega-struttura è uno dei massimi esempi della progressiva – e ben celata – islamizzazione dell’ex «Gerusalemme d’Europa». Il Bbi Centar svetta a due passi dal ponte latino dove nel 1914 il nazionalista serbo­bosniaco Gavrilo Princip uccise l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero austro­ungarico, evento che fece scoppiare la Prima guerra mondiale. Il Bbi Centar è stato finanziato cinquanta Paesi islamici e dentro le sue mura vige la shari’a: qui non si vendono né alcolici né carne di maiale, le donne entrano solo con il velo, è bandita ogni manifestazione affettiva (nemmeno tenersi per mano). Sul rispetto delle regole vigilano discretamente alcune guardie giurate «islamiche». Il Bbi Centar rappresenta plasticamente un processo che, silenziosamente, sta interessando la Bosnia Erzegovina. A pochi metri dall’Holiday Inn, l’hotel dei reporter durante l’assedio della città a metà anni Novanta, è sorta da poco tempo una fiammante moschea finanziata dall’Arabia Saudita. Nel centralissimo viale intitolato al maresciallo Tito fa bella mostra di sé il centro culturale iraniano aperto di recente. La strategia dei Paesi islamici più estremisti (regno saudita e Teheran in testa) è semplice: agganciare la gioventù musulmana bosniaca, spaesata dopo la guerra, senza punti di riferimento e pronta a votarsi a chi gli prospetta un’identità solida. E quella islamista è tra le più granitiche. Così succede che ai giovani musulmani vengano offerti soldi per non tagliarsi la barba secondo i dettami coranici più stretti. Alle ragazze che accettano di portare il velo viene elargita una borsa di studio per coprire le spese dell’università. La penetrazione islamica si evidenzia in mille aspetti della vita quotidiana di Sarajevo. Appena fuori città, lungo la strada che porta a Mostar, si trova la cittadina di Hadzici: «Un magnate degli Emirati arabi uniti comprato la squadra di calcio locale, il Radnik, che era in serie D. Ora si è qualificata in B e l’anno prossimo andrà sicuramente in A», ci spiega l’autista verso la città dal ponte «a schiena d’asino». Dal punto di vista linguistico l’idioma serbocroato accomuna i tre Stati (Croazia, Serbia, Bosnia Erzegovina) sorti dalle ceneri dell’ex Jugoslavia. Ma ora nella Federazione di Bosnia – la regione a maggioranza musulmana – nel linguaggio vengono introdotte diverse parole di origine turca proprio per «islamizzare» la comunicazione quotidiana. Nel contingente Eurofor che sorveglia il rispetto degli accordi di Dayton la presenza della Turchia musulmana acquista sempre più potere. E nel mondo coranico bosniaco qualcuno inizia a trarre le conseguenze di questa islamizzazione sempre più marcata. Di recente il responsabile del Comitato di Helsinki in Bosnia, che per statuto dovrebbe garantire il rispetto dei diritti umani, il musulmano Srdjan Dizdarevic, ha dichiarato in tutta tranquillità: «La pulizia etnica dei croati in Bosnia è praticamente conclusa». E le conseguenze sono immediate. Soprattutto per la minoranza cattolica: «I nostri giovani non restano qui, finiti gli studi se ne vanno» si lamenta Slavica Juka, decana della facoltà di Filosofia dell’università di Mostar. Il governo di Zagabria ha deciso di sostenere concretamente la minoranza cattolico-croata in Bosnia: per il nuovo campus universitario di Mostar, che sorgerà nell’ex aeroporto militare (venticinquemila ettari che ospitavano diecimila soldati), la Croazia ha investito cinquanta milioni di euro, una somma enorme per la Bosnia dove lo stipendio medio è di trecento euro. Conferma il giovane interprete Dimar: «Al cardinale di Sarajevo Puljic sono stati fatti cinque attentati in poco tempo. Vivere con i musulmani qui è sempre più difficile». Una curiosa vicenda sta interessando l’episcopio dell’arcidiocesi di Sarajevo (i cattolici in città sono ventiduemila, il quattro per cento della popolazione, quando prima della guerra erano il quindici per cento; nell’intera Bosnia raggiungono il diciassette per cento). Durante i lavori edili di ristabilimento dell’arcivescovado dopo il conflitto, si scoprì che sopra la sala episcopale dedicate alle riunioni il governo di Tito aveva piazzato una serie di microfoni nascosti per registrare quello che vescovi e preti dicevano. L’intromissione era stata facilitata da una famiglia stabilitasi nell’appartamento sovrastante l’episcopio. Dopo la guerra degli anni Novanta l’intero edificio venne restituito dal governo alla curia. Ma qualche tempo fa i discendenti della famiglia-spia – nell’indifferenza del governo bosniaco – hanno intentato una causa alla diocesi per la restituzione dell’appartamento un tempo abitato. Perentoria la risposta dell’arcivescovo Puljic: «Piuttosto vado in prigione». Poche settimane fa il nuovo vicepresidente americano Joe Biden è atterrato a Sarajevo per la sua prima uscita internazionale. Gli Stati Uniti stanno per inaugurare un’imponente sede diplomatica sul viale che dall’aeroporto porta in centro città: nove piani di ambasciata, tre in superficie, sei sotto terra. Vicino al viale da passeggio Vladislava Skarica alcuni uomini giocano a scacchi per strada con grandi pedine: lo scacchiere balcanico non è ancora stabilizzato. Le mosse islamiche rischiano di portare ad un nuovo, preoccupante «scacco matto» musulmano a un’ora di volo da Roma.