Storie di cuoio. Sara scende in campo per le mamme dello sport
La calciatrice "mamma" della Juventus Women Sara Gunnarsdottir
Della comunicazione della Juventus, almeno per quanto riguarda ciò che esce dal Creator Lab e tralasciando la propaganda quotidiana, non si può certo dire che si tenga lontana da argomenti che altri evitano quanto più possibile di trattare. Negli ultimi due anni, dal podcast “Sulla razza” contro le discriminazioni, giunto alla seconda stagione, alla gravidanza della famiglia omogenitoriale formata dalla ex calciatrice Lisa Hurtig e dalla compagna Lisa Lantz, passando per il coming out di Lisa Boattin e Linda Sembrant, il club bianconero è andato ben oltre la banalità dei messaggi che, su certi temi, caratterizza la totalità dei club italiani. Allo stesso modo, poche settimane fa in occasione della festa della mamma, ha prodotto e trasmesso un video documentario su un altro argomento piuttosto delicato, quello del diritto alla maternità per le calciatrici e, in genere, per le sportive. Protagonista del video è la calciatrice islandese Sara Gunnarsdóttir, 32enne centrocampista delle Women bianconere, che racconta la vicenda della sua gravidanza. Titolo del documentario è My Greatest Achievement, e Gunnarsdóttir racconta, assieme al compagno Arni Vilhjálmsson (anch’egli calciatore), uno dei periodi più emozionanti della sua vita, quello della gravidenza, dalla scoperta di essere incinta fino alla nascita del figlio Ragnar. L’islandese giocava allora per il Lione che, dice, «appena ricevuta la notizia mostrò di essere felice per me, emise un comunicato stampa per supportarmi e mi disse personalmente che lo avrebbe fatto. Sfortunatamente, non andò così». Andò che Gunnarsdóttir, pur continuando ad allenarsi quotidianamente in Islanda durante il periodo di indisponibilità per la gravidanza, venne pagata dal Lione appena un quarto rispetto a quanto previsto nel contratto. Tuttavia, dal momento che Fifa e FifPro (il sindacato dei calciatori) avevano introdotto nel 2020 una nuova regolamentazione in materia, la centrocampista decise di fare causa al club francese, vincendo il giudizio. Una vicenda spartiacque, nel calcio, per quanto riguarda le atlete professioniste. «Nello spogliatoio ci confrontavamo su quando fosse il caso di creare una famiglia e avere figli, perché non è comune durante la carriera e, in qualche modo, non è accettato », spiega. E, in effetti, si tratta di un diritto che spesso nello sport viene negato laddove le atlete sono professioniste di fatto ma non de iure. In Italia ha fatto scalpore, nemmeno troppo tempo fa, la vicenda di Lara Lugli, pallavolista il cui contratto venne risolto dal club in cui giocava, dopo che aveva comunicato di essere incinta. Non fu il primo caso, non sarebbe stato l’ultimo, ma l’atleta riuscì ad aprire il dibattito grazie a un post social, scritto nel giorno della festa della donna del 2021, in cui raccontava accoratamente la storia. Ora, posto che esisteva ed esiste, per le atlete non professioniste, un fondo a sostegno della maternità poco conosciuto e comunque di dotazione esigua (un milione complessivo annuo, con la possibilità di garantire 1.000 euro per un massimo di 12 mensilità alle atlete che ne fanno richiesta e rientrano nei parametri previsti), lo sport italiano si trova a poche settimane dall’entrata in vigore, il prossimo 1 luglio, della legge sul lavoro sportivo che, a seconda della natura del rapporto (subordinato, autonomo, co.co.co.), prevede le rispettive tutele previdenziali e in materia di ma-lattia, infortunio, disoccupazione involontaria, salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, ma anche appunto gravidanza, maternità e genitorialità. L’entrata in vigore era già stata posticipata e, sebbene sia difficile pensare che la legge possa risolvere il problema, considerando che esistono scappatoie e che le società hanno eccepito su alcuni punti, si tratta comunque di un passo avanti che, per la prima volta, almeno riconosce la situazione e tenta di porvi un primo rimedio. Non per un capriccio. Per un diritto.