Agorà

IL CASO. Alpi: i santuari «anti-limbo»

Roberto Beretta venerdì 21 maggio 2010
Adesso che la mortalità infantile è – fortunatamente – quasi un ricordo; adesso che il limbo non c’è più (per meglio dire: è stato dichiarato ufficialmente trattarsi di teoria teologica mai proclamata dogma e comunque superata); adesso forse si potrà analizzare con più pacatezza un fenomeno che invece è stato vissuto passionalmente da molte generazioni precedenti, per le quali fu spesso una questione drammatica. D’altronde la teologia cattolica sembrava chiara in materia, quasi matematica: solo nella Chiesa c’è salvezza, e solo col battesimo si entra nella Chiesa. Dunque per salvarsi il battesimo (se non «d’acqua», almeno «di sangue» o «di desiderio») è obbligatorio... E i bambini nati morti? Pur incolpevoli, poveretti, non potevano salvarsi: dovevano «per forza» andare tra i dannati all’inferno. Così almeno secondo sant’Agostino. Ma, proprio per venire incontro alla disperazione di tanti genitori che – oltre al lutto per la scomparsa del figlioletto – avrebbero dovuto digerire l’impossibilità di seppellire il loro innocente congiunto in terra consacrata nonché di incontrarlo un giorno nell’aldilà, l’elaborazione medievale escogitò il limbo: terra liminare (un «lembo», appunto) dell’inferno, nel quale i piccoli avrebbero trascorso l’eternità senza piena visione di Dio ma anche senza pene né dolori. Non c’era alternativa. O meglio, una debole diversa possibilità esisteva e consisteva nel recarsi nei Santuari à répit, quei luoghi santi situati soprattutto sulle Alpi dove da tempi immemorabili si celebrava «il rito del "ritorno alla vita" o "doppia morte"», come sunteggia il titolo dell’opera dell’antropologa e storica piemontese Fiorella Mattioli Carcano: un libro (Priuli & Verlucca, pp. 222, euro 14,50) quasi unico sull’argomento, almeno per quanto riguarda l’Italia. I cosiddetti santuari à répit sono infatti più diffusi oltralpe (dove ne sono stati censiti 279), e in certe regioni francesi in modo particolare; ma d’altra parte l’autrice giustamente ammonisce a non sottovalutare il fenomeno anche da noi: dove esistono testimonianze soprattutto in Piemonte, Val d’Aosta e Trentino (casi singoli risultano censiti anche in Lombardia, Veneto, Friuli e persino Umbria). Era stato ancora sant’Agostino, del resto, a fornire lo spunto all’escamotage popolare per sfuggire il limbo: in una predica, infatti, il vescovo d’Ippona riferiva della temporanea resurrezione di un catecumeno solo per il tempo necessario a battezzarlo. Il leggendario medievale non tardò dunque a popolarsi di altri episodi analoghi, in cui beati intercessori (tra i principali: sant’Orso, sant’Anna, Giovanna d’Arco...) o la Madonna stessa permettevano la miracolosa «rinascita» dei piccoli defunti giusto per il tempo di ricevere il sacramento. A testimonianza della durata e della diffusione del fenomeno del répit, il più antico episodio censito dalla professoressa Mattioli Carcano risale al 1172 e sarebbe avvenuto nell’abbazia premostratense di Mariengardt in Olanda, mentre il più recente è del 1912 in Francia; ma il periodo d’oro sono i secoli di Riforma e Controriforma, tra Cinque e Seicento. Per l’Italia l’arco temporale delle testimonianze conosciute va dal 1498 al 1871, in vari luoghi – tutti analizzati nel testo di Priuli & Verlucca – dal Monregalese alla Val di Susa, dal Novarese alla Val d’Aosta, a Tirano (So) e al meranese. La tipologia degli episodi mostra alcune varianti su uno schema però fisso. Il bimbo defunto veniva trasportato, in genere dal padre o da parenti, in uno dei luoghi noti per il répit; il viaggio col piccolo cadaverino poteva durare vari giorni, perfino 15. Giunti a destinazione, il neonato veniva «esposto» ai piedi dell’altare recante l’immagine sacra, a volte per cura di una persona deputata a ciò (un eremita, una «mammana»), e dopo varie preghiere si celebrava la messa. L’elevazione era il momento in cui preferibilmente avrebbe dovuto verificarsi il «miracolo»: la contrazione di un muscolo, l’emissione di sangue o di muco dal naso o dalla bocca, il movimento di una piuma appositamente collocata sulle labbra del neonato, un cambiamento di colore delle guance... Se qualcuna di tali condizioni sembrava essersi verificata, allora avveniva il battesimo sub condicione (ovvero «a condizione» che il soggetto fosse veramente vivo); poi il piccolo poteva essere finalmente seppellito, spesso nel cimitero del santuario stesso. Se invece il prodigio non si fosse verificato, rimaneva a parziale consolazione la possibilità di inumare il defunto all’esterno della chiesa, preferibilmente sotto gli scoli dell’acqua piovana del tetto: ché, se l’acquasanta del battesimo non aveva potuto benedire il corpo, almeno lo lavasse in perpetuo quella che scorreva dal cielo alla terra attraverso la mediazione di un luogo sacro. Ovvio che la suggestione o addirittura la superstizione giocassero nella maggioranza dei casi un ruolo preponderante: alcuni «luoghi della morte sospesa», posti su un monte o accanto a una sorgente «magica», erano infatti già stati sacri al culto pagano; d’altronde le anime dei bambini morti senza battesimo erano popolarmente assimilate a spiriti vaganti della notte o a folletti dispettosi e macabri da acquietare con riti più o meno esoterici. Non per nulla la Chiesa «ufficiale» ha spesso osteggiato la pratica del répit, non solo esibendo i pareri negativi dei teologi (quelli, si sa, sono pur sempre «intellettuali»...) ma anche attraverso disposizioni pastorali emanate dai vescovi, fino alla condanna firmata da Benedetto XIV nel 1755. Unica osservazione – ma importante – al generoso lavoro di Fiorella Mattioli Carcano è sul significato dell’espressione à rèpit; la studiosa, sulla scorta di precedenti saggi, riferisce che si tratta di un vocabolo d’antico francese usato in Piccardia e lascia intendere che significhi «respiro»: nel senso sia dell’emissione d’aria che testimonia il «ritorno alla vita» del bambino, sia (soprattutto) della brevissima durata della resurrezione; il «tempo di un respiro», appunto. Ma forse répit riprende piuttosto la radice di «rispetto», parola che nel Medioevo indicava la tregua da un’attività, la sosta in una fatica, la sospensione che il sovrano feudale concedeva al pagamento di una tassa, dunque anche la momentanea interruzione nel potere assoluto della morte. La definizione migliore dei luoghi del répit porrebbe essere allora «santuari dell’intervallo». Poetico, no?