Tendenza. Sanremo e i rapper da piccolo schermo
Ma dove vai se il rapper non ce l’hai? Siamo a Sanremo Festival della canzone italiana o al raduno dei freestyle denoantri? Le domande sorgono spontanee dinanzi a cotanto rappificio. «Il genere rap/trap è dominante», dice convinto un cantautore della vecchia scuola come Daniele Silvestri che infatti, per presentare la sua Argentovivo, ha chiesto generoso feat a Rancore.
Trentenne rapper romano (forse l’unico verace e non virtuale all’Ariston), parla come il nipote di Califano ma è un G2 generation, figlio di padre croato e mamma egiziana, registrato all’anagrafe capitolina come Tarek Iurcich. Rancore scrive anche cose raffinate, e poi tanto timido e gentil pare dietro le quinte dell’Ariston, quanto è belva incappucciata sul palco in cui tra i banchi di scuola recita la parte dell’adolescente rabbioso stile La classe (il film francese di Laurent Cantet). Riscatto e Rolls Royce, urla un altro nato ai bordi di periferia: Achille Lauro (niente a che spartire con l’omonimo armatore partenopeo), romano, ragazzo di vita del terzo millennio che ostenta la ricchezza accumulata in breve tempo, grazie al rap ovviamente.
E e a chi glielo fa notare risponde a muso duro: «Ostento perché è un modo per far capire a tanti della mia generazione che se vogliono possono spaccare il mondo». Non “spacca” Mattia Bellegrandi, in arte Briga, altro trentenne, romano, che accompagna la “zia” Patty Pravo, alla decima apparizione a Sanremo. Briga, al debutto sanremese, ha cominciato a “freestalizzare” in Danimarca e al grande pubblico è arrivato grazie al talent Amici di Maria De Filippi.
È figlio del talent anche Mahmood, 26enne milanese, origini egiziane, è u- scito dal calderone di X Factor edizione 2012. Al Festival, Mahmood c’era già stato nel 2016 – sezione giovani – e il titolo del brano che presentava sintetizza l’esperienza, Dimentica. Resta in mente invece la sua Soldi , sterco del diavolo ma ossessione di tutti i rapper, specie quelli come lui che rivendicano «in periferia fa molto caldo».
Ma mentre in America dai tempi di Tupac Shakur e Notorius – unici due rapper, entrambi morti ammazzati a 25 anni, che conosce e riconosce Loredana Bertè – il “rapper vero” fuoriesce dall’inferno dei ghetti metropolitani, da noi invece i piccoli rapper italiani nascono e crescono soprattutto sul piccolo schermo. E da lì dentro i cantastorie “rimaioli” (spesso nipoti poveri dei maestri dell’ottavina) proliferano e sbarcano prepotentemente a Sanremo dove diventano scialuppe di salvataggio.
Nino D’Angelo forse non sarebbe più attraccato al molo dell’Ariston senza Livio Cori, sul quale aleggia il mistero che sia lui il fantomatico Liberato (rapper, anche lui incappucciato, partenopeo). Un bravo “guaglione” il figlioccio hip-hop di Nino D’Angelo, così come ha faccia d’angelo l’irpino Picariello, alias Ghemon, classe mundial 1982 che colleziona scarpe da tennis, tifa Avellino (pallacanestro e calcio) e la sua canzone Vola alto è la colonna sonora che apre le partite della LegaBasket.
Un “normal one” Ghemon, come il buon Shade che, trottolino amoroso, duetta con Federica Carta, come la maggioranza dei rapper che hanno accettato di venire a Sanremo 2019 con il rischio che i loro fan non gli perdonino una scelta così poco “alternativa”, contraddittoria. Da verificare anche la furbata di Baglioni di portare in “massa” i rapper e i presunti genietti del trap con l’intento di strizzare l’occhio al pubblico giovane, specie quello hip-hop dipendente.
Ma l’escamotage potrebbe anche trasformarsi in un boomerang, con la conseguente perdita dello zoccolo duro del popolo festivaliero, che per cinque giorni pretende di ascoltare pezzi sanremesi come a Natale vuole mangiare il panettone. E anche se questo mini festival- rap fosse un pandolce ricco di ingredienti nuovi e freschi non è mica detto che lo trovi digeribile.